Paolo Villaggio se ne sta fermo immobile nella tribuna del Luigi Ferraris. Dal seggiolino alle sue spalle Gianni Minà sporge in avanti il microfono che stringe nella mano sinistra. L’attore si volta lentamente. È avvolto in un doppiopetto blu e ha un’ingombrante coccarda all’occhiello sinistro. È tutta colorata. Bianco. Rosso. Blu. Nero. “Mi dovrei vergognare – dice – io sono un intellettuale di sinistra, dovrei vivere queste cose con un certo distacco. Però è dura, non si può“. Due gigantesche lenti fumé gli coprono gli occhi. Ma non bisogna sforzarsi più di tanto per leggere l’emozione sul suo viso. E nella sua voce. Come ci ricorda Andrea Romano su Il Fatto Quotidiano, in un articolo denso di emozioni forti.
L’uomo che ha passato tutta la vita a limare le parole, ora si ritrova improvvisamente a secco. Ed è una condizione piuttosto condivisa in quel pomeriggio di trent’anni fa. A Marassi non ci sono 30mila persone, ma un solo, gigantesco essere. Ha infinite sfumature diverse di blu, emette un ruggito che è la somma di migliaia di miagolii. “Io non credo in Dio – dice poco dopo Villaggio – ma da oggi credo alla Sampdoria“.
Tutti guardano il campo ma nessuno osserva davvero cosa sta succedendo. Perché quello spettacolo è improvvisamente superfluo. Non è più il fine della domenica, ma è un ostacolo, una dilatazione ulteriore di un’attesa lunga otto mesi. La squadra con la maglia da ciclista sta battendo 3-0 il Lecce. E sta per alzare il suo primo scudetto. Non è una festa, è un orgasmo collettivo. È partito la mattina dai carruggi ed è salito fino in cielo. E ha travolto tutto quello che ha incontrato. Nessuna strada è stata risparmiata. Bandiere, sciarpe, maglie, stemmi sono dappertutto. Persino il cinema Alcione in via Canevari è listato a festa. Lì dove vengono proiettati film hard in mattinata è andato in scena uno spettacolo molto diverso. Nessuna nudità, stessa eccitazione. Perché fra quelle poltroncine si è tenuta l’assemblea di tutti i club del Doria. L’erotismo delle locandine è stato annacquato. Del film in cartellone resta solo la parola “Conigliette”, il resto è nascosto da una bandiera blucerchiata. Anche il display a piazza De Ferrari ha iniziato a raccontare una bugia.
Scandisce i secondi che mancano al cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo. Ma a nessuno un città gliene importa più niente. L’attesa è per un altro conto alla rovescia. Quello che porta dritto al triplice fischio dell’arbitro. E quando arriva non porta gioia, ma uno strano senso di liberazione. Poco dopo un uomo comincia a correre lungo il perimetro del campo. Indossa solo un paio di mutandoni bianchi. La maglia l’ha lanciata ai tifosi in curva. Così come i pantaloncini.
Quel ragazzo ha il cranio coperto da una nuvola di capelli e i muscoli del petto che si intravedono sotto un manto di peli neri. Il suo fisico è così diverso da quello degli atleti di oggi. Così come i suoi modi. Si chiama Gianluca Vialli e ha 27 anni. È uno degli attaccanti più forti del Vecchio Continente, uno che è riuscito a portare il futuro nel presente, ma viene spesso ricordato come componente di una coppia. Il suo sodale, Roberto Mancini, non è neanche sceso in campo in quel pomeriggio. Colpa di una squalifica che non sposta il peso dell’impresa. Uno scudetto di mare che è anche l’ultimo scudetto corsaro della nostra storia. È l’ultimo successo di una squadra che non fa parte della solita nobiltà calcistica italiana. Un’impresa che i giornalisti hanno pigramente ribattezzato “favola”, ma che in realtà assomiglia molto a un qualcosa di inevitabile.
Quel successo collettivo nasce da un fallimento individuale. Quello della Nazionale ai Mondiali del 1990. Nelle notti magiche l’azzurro dei ragazzi di Vicini si è trasformato in blu tenebra. L’eliminazione contro l’Argentina in semifinale è una beffa, sembra un castigo della sorte per aver vilipeso Diego Armando Maradona in mondovisione. A qualcuno però è andata peggio che ad altri. Vialli, che doveva essere la stella di Vicini, è stato tormentato dai problemi fisici. Mancini è stato titolare inamovibile. Ma della tribuna. Chiude la competizione senza neanche un minuto giocato. “Seguo il signor Vicini da otto anni – dirà – d’un tratto, silenzio. A Marino non mi ha rivolto parola”. La Sampdoria diventa casa, diventa fede, diventa rivincita. I due si chiudono all’interno della stessa dimensione. Il loro rapporto diventa simbiosi, hanno bisogno l’uno dell’altro.
Si completano, si migliorano a vicenda, spingono al limite un club amato dagli esteti e bersagliato dai giornalisti. La chiamano la squadra immatura, dicono che sia incapace di credere in sé stessa, di sopravvivere ai propri crolli emotivi. In estate arriva quella che sembra una conferma. I mercato porta a Genova Oleksij Mychajlyčenko, centrocampista dal talento inferiore solo alla sua capacità di infortunarsi. I quotidiani declassano il colpo a cialtroneria.
Dicono che l’ucraino è un frequentatore fisso delle Ussl, sottolineano come la Sampdoria abbia sbagliato a comunicare il numero del volo che l’avrebbe portato a Milano, ripetono che ad accoglierlo c’era soltanto un giornalista. Il coro è unanime: se la Sampdoria vuole crescere deve imparare a farsi prendere sul serio. A volte la passione di Mantovani viene spacciata addirittura per incompetenza. La verità è un’altra. “La Sampdoria 1990-1991 è un’icona di resistenza in un calcio che sta cambiando pelle”, scrive Marco Gaetani in Roberto Mancini, senza mezze misure, un bel libro appena uscito per 66thand2nd. Ed è vero. La Juventus di Luca Cordero di Montezemolo ha deciso di cambiare. Via Zoff, dentro Gigi Maifredi. Nella speranza che le bollicine del calcio-champagne possano solleticare la gola degli amanti delle novità.
Il Milan di Sacchi non ha vinto lo scudetto ma è stato trascinato dai tre olandesi alla seconda Coppa dei Campioni. L’Inter di Trapattoni spera nei muscoli d’acciaio dei tre olandesi. Il Napoli campione d’Italia non sa ancora che presto assisterà al crepuscolo di Maradona, che a marzo risulterà positivo all’antidoping. Allora la Sampdoria è un qualcosa fuori dal tempo. Antica e moderna, italianissima e straniera nello stesso tempo. Boskov schiera il libero e lo stopper. E davanti lascia spago a Vialli e Mancini. È una squadra fortissima. Dossena, Cerezo, Vierchowod, Lombardo, Katanec sono allo stesso tempo assi e gregari, entità che si fondono per creare un collettivo. La prima pietra miliare dello scudetto viene posta il 18 novembre 1990. La Samp futura campione d’Italia batte i campioni in carica del Napoli. È la vittoria che mette fine a un sogno partenopeo. E ne fa iniziare un altro. La creatura di Boskov è più forte degli avversari, ma soprattutto delle proprie paure. Le sconfitte sono pillole di veleno che ingoia per tornare più forte. Nei piedi. Nei nervi. Secondo l’allenatore sono due i momenti che hanno reso possibile lo scudetto. E sono entrambe disfatte. La prima è il derby d’andata perso contro il Genoa. È lì che il gruppo comincia a compattarsi. Il secondo arriva a gennaio 1991. Il Doria perde contro Torino e Lecce, poi si fa pareggiare dalla Lazio a cinque dalla fine. “Dopo la partita i ragazzi hanno fatto una cena tutti insieme e hanno fatto un giuramento“, racconterà Boskov. E il patto verrà rispettato. Da immatura la squadra diventa spudorata. Batte due volte l’Inter, il Milan, il Napoli, una la Juventus (l’altra finisce in pareggio). Fino a quel 19 maggio 1991. Un pomeriggio che sa di rivincita ma anche di novità, una festa sfrenata dai modi gentili. Anche quando sugli spalti appare uno striscione con scritto “Stampa, immaturi te salutant”.
Paolo Villaggio guarda i fumogeni che scendono dalla curva e dice a Minà: “C’è una grande compostezza tipicamente ligure, tipica di questa gente, vergognarsi dei buoni sentimenti”. È uno scudetto che cancella tutto tranne il cinismo. Negli spogliatoi Vialli presenta alla stampa un suo nuovo compagno di squadra. Poi la telecamera si sposta su Attilio Lombardo. Ha un sorriso che gli allarga il viso e un parrucchino che gli copre la testa calva. “Per me è una gioia immensa non per lo scudetto – dice – ma perché mi sono ricresciuti i capelli. Genova può fare di questi miracoli. Se l’avessi saputo sarei venuto anche prima”. Boskov, che per un anno era stato accusato di essere il babysitter di un gruppo di giocatori, ora diventa il demiurgo del successo. È in tutte le televisioni.
È su tutti i giornali. “La cosa che più mi ha dato fastidio è quando mi hanno detto che Boskov è ‘immaturato’ come la squadra”, dice da Sandro Ciotti. “Io non sono allenatore di calcio, io sono professore di storia e geografia – racconta al Corriere – Avevo una laurea e una classe di liceo alla quale insegnare qualcosa in Jugoslavia, ma si guadagnava troppo poco, per questo ho ripreso da dove avevo lasciato quando era finita la mia carriera di calciatore. Ma quelli che mi criticano, quelli che dicono che io conto poco nella Sampdoria, non sanno che oggi chi fa l’allenatore deve conoscere cose che i giocatori non sanno. E di calcio, con giornali e televisione, sanno quasi tutto”. Una perla preziosa. Anche se lo scudetto degli aforismi lo vincerà Villaggio. “Perché non sei genoano come il tuo amico di infanzia Fabrizio De André“, gli domanda Minà in apertura di servizio. L’attore, si gira, sorride: “Perché lui non è genovese come me”.