Anche nel calcio gli episodi di omofobia putroppo si sprecano. La storia di Justin Fashanu rappresenta al meglio cosa significa essere trattati come un diverso. E il finale, troppo spesso, è tragicamente scontato.
L’ ormai noto insulto gratuito e grave di Sarri a Mancini non è nemmeno figlio del razzismo, ma dell’ignoranza, di un retaggio culturale dove l’idea di essere – per dirla alla Sarri – “finocchio” è un’offesa.
Qui caverna, a voi mondo. Poi ci si scusa, va bene. Pardòn, non intendevo quello. Ma è questione di cultura marcia – come ha ben scritto il giornalista sportivo Furio Zara in uno specifico reportage -, si ammicca, si sghignazza, si va di default, si procede tra stereotipi e discriminazioni più o meno involontarie.
Invece, l’omosessualità nel calcio è una questione che – al netto del becero gossip da pianerottolo – racconta storie coraggiose, talvolta tragiche.
In epoche recenti il primo calciatore a dichiarare la propria omosessualità fu proprio l’inglese Fashanu. All’inizio degli anni ’80 giocava nel Nottingham Forest.
Era un talento, l’avevano pagato un milione disterline. Subì le vessazioni del suo allenatore, il leggendario Brian Clough.
Ancora Fashanu nel Forest
Dialogo nello spogliatoio. “Justin, dove vai se vuoi una pagnotta? Da un fornaio. E se vuoi un cosciotto d’agnello? Da un macellaio. Allora mi spieghi perché caz..vai in quei locali per froci?“. E giù risate.
Nel Notts County
Justin passa anni d’inferno. Negli stadi gli tirano le banane, gli urlano “bloody poof“, “dannato frocio“.
A trent’anni, mentre vivacchia al tramonto di una carriera mai esplosa, fa coming out e vende l’esclusiva al “Sun” per 100.000 sterline.
Viene ripudiato dal fratello, John, pure lui calciatore di successo.
Emarginato, solo disperato, nessun club lo tessera, smette di giocare, ha guai con la giustizia, scappa in America, prova ad allenare, torna.
A 37 anni decide di farla finita. Lo trovano appeso ad una corda, in un garage nei sobborghi di Londra.