Qui finisce il campo. Era un cartello che Manlio Scopigno aveva fatto piantare dal magazziniere ad uso e consumo di Nastasio, un attaccante del Cagliari piccolo e velocissimo che tendeva a crossare in ritardo. Qui finisce anche la carrellata sul campo dei ricordi: una squadra dall’1 all’11 deve avere un allenatore e ho scelto Scopigno. Non lo posso intervistare, perché è morto, ma mi sembrava giusto tornare a parlarne, chiedere di raccontarlo a quelli che l’hanno conosciuto. Sono andato a Roma dalle donne della sua vita, tutte e due laureate e docenti. Angela, la moglie, di Lettere. Francesca Romana, la figlia, di letteratura inglese. Hanno espresso il desiderio di non essere virgolettate, come si dice in gergo, e lo rispetto. Me ne hanno parlato come di una persona schiva, che lasciava il calcio fuori casa e che, con l’eccezione della prima esperienza vicentina, non portava la famiglia sul posto di lavoro. Viveva in albergo.
Allenatore friulano, s’è letto spesso. Ma di friulano non aveva nulla, se non il luogo di nascita: Paularo, alta Carnia, 20 novembre 1925. C’era di servizio il padre, guardia forestale, radici in Umbria, che presto fu trasferito a Rieti. Lì Scopigno inizia a giocare a pallone, in C e in B, poi passa alla Salernitana e infine, fortemente voluto da Monzeglio, al Napoli in A. Monzeglio, terzino campione del mondo e istruttore a tennis dei figli di Mussolini, teneva una rubrica sul “Calcio illustrato” e paragonò Scopigno a Maroso. Intanto Scopigno s’era iscritto alla Sapienza di Roma, Pedagogia. Per questo fu poi chiamato il Filosofo (il primo fu Nevio Furegon, corrispondente della Gazzetta da Vicenza). A quei tempi già era una rarità un calciatore con la licenza media, una vera mosca bianca chi frequentava l’università. C’è chi se lo ricorda, a Salerno, elegante come un lord inglese e già buon pokerista. Elegante anche sul campo, gambe sottili, bella corsa e buon piede, non un terzinaccio. Nel Napoli gioca una sola partita. Due versioni, una di minoranza: si infortuna in un tackle con Sivori. Una più accreditata (anche dalla moglie): esordisce in Napoli-Como 7-1, segna il quinto gol, primo e ultimo della sua promettente carriera perché poi gli saltano i legamenti del ginocchio destro, e addio. Col pallone vanno alla deriva anche gli studi. Indeciso se arrivare alla tesi o rimanere in qualche modo nel calcio, rimane nel calcio. Ricomincia da Rieti, come allenatore-giocatore in serie D, poi solo allenatore: a Todi, ancora a Rieti, a Ortona. L’ascensore per la serie A passa da Coverciano: frequentando il corso-allenatori conosce Roberto Lerici, detto il Frate per i modi garbati, italianista convinto, molto stimato da Gianni Brera. Lerici lo vuole come secondo a Vicenza. Due anni da vice e, quando Lerici è esonerato, Scopigno viene fu promosso dal presidente Maltauro, consigliato in questo senso da Lerici stesso e dal capitano, Savoini.
«L’allenatore più intelligente e controcorrente che abbia avuto. Nei ritiri studiavo per laurearmi in Legge e un allenatore, Andreoli, mi aveva invitato a non studiare seduto a un tavolo perché mi sarei guastato i muscoli. E i miei compagni che giocano a carte per ore seduti a un tavolo? Obiettai. E lui, deciso: è diverso, altre fasce muscolari. Scopigno mi dava del lei, solo a me in tutto il Lanerossi. Già a Vicenza concedeva libertà, mai un controllo telefonico notturno. Pensi quant’era in anticipo sui tempi. Distribuiva a tutti un questionario: con chi divideresti volentieri la camera in ritiro? con quale compagno andresti in ferie? A chi confideresti un problema extracalcistico? Al più votato affidava la fascia da capitano. Conosceva il gioco degli avversari. A Genova, con la Samp, sapeva che mi avrebbe marcato Vincenzi. Mi disse di partire alto, e arretrare progressivamente, e a Puja centrocampista disse di partire basso e avanzare progressivamente. Vincemmo 2-0 con due gol di Puja, loro non capivano chi dovesse marcarlo. Degli avversari sapeva tutto, prendeva appunti su un quaderno. Tatticamente, spostò a terzino Savoini, che era ala sinistra. Si ricorda Savoini, quello che poi scoprì Roberto Baggio? Era anche uno psicologo, Scopigno. Agli inizi Vinicio era triste, non segnava neanche in allenamento. Allora Scopigno disse a Savoini, che del posto era sicuro, di marcare Vinicio più blandamente. Viniciò cominciò a segnare in allenamento, ma poi, col morale alto, anche in partita».
Salvezza raggiunta, settimo, sesto, undicesimo. Così Scopigno in quel Vicenza che sarebbe rimasto in serie A per 21 anni filati. Poi il grande salto, a Bologna. Grande perché da poco il Bologna aveva vinto lo scudetto e perché quella panchina era stata occupata da Fulvio Bernardini. Breve, perché durò sei partite in tutto. Ricorda Adalberto Bortolotti, allora a Stadio: «Con la stampa bolognese aveva legato bene, si tirava tardi insieme, col presidente Goldoni no. Sembrava che Scopigno non vedesse l’ora di essere sollevato dall’incarico. Incominciò a lamentarsi del campo («infame, non ci torneremo più») di Modigliana, dopo un’amichevole. Modigliana era il feudo di un potente politico Dc amico di Goldoni. A Goldoni venne il sospetto che Scopigno fosse comunista, e prese male anche una visita di cortesia che Scopigno fece a Bernardini. Poi ci fu l’onda di Modena, per dirla con Goldoni, cioè l’onta, il Bologna eliminato dal Modena in Coppa Italia. E l’esonero arrivò. Anni dopo, a chi gli chiese se sarebbe tornato volentieri ad allenare a Bologna, Scopigno rispose: «Sì, ma alla guida di un cacciabombardiere». A Cagliari, partito Silvestri per andare al Milan, lo vuole Andrea Arrica, un dirigente che quelli di oggi li sgranocchierebbe col primo caffè. Gli piaceva il gioco del Vicenza, una provinciale come il Cagliari, in fondo. Alla fine, miglior difesa (17 reti) e sesto posto. Con la stessa difesa, 38 reti al passivo l’anno dopo, con Puricelli. Già, perché Scopigno era stato licenziato. Motivi da chiarire, anche qui due versioni: il Cagliari impegnato in un propagandistico torneo Usa, è invitato a cena nella residenza dell’ambasciatore italiano a Chicago. Le due versioni: Scopigno ha fatto pipì contro una siepe, nel giardino. No, Scopigno l’ha fatta in un cassetto della scrivania dell’ambasciatore.
«Buona la prima», commenta Pierluigi Cera, «ma è stato solo un pretesto. Tra Scopigno e il presidente Rocca non era mai corso buon sangue». Brera scrisse sul Guerino: «Scopigno ha trovato il solito diplomatico minore che ha ritenuto offesa l’Italia nella sua dimessa maestà di funzionario. Quante volte dovremmo allora trovare offeso il nostro Paese dalla stronzaggine di certi diplomatici minori?». Per Scopigno, un anno a spasso, ma verosimilmente stipendiato da Moratti, che lo voleva all’Inter al posto di Herrera, così come da anni voleva l’interista Riva, ma Herrera preferiva Pascutti. In quegli anni sull’isola c’erano forti investimenti: la Saras di Moratti, la Sir di Rovelli. Via Rocca, diventò presidente Corrias, anche presidente della Regione, Arrica sempre presente, Scopigno torna ed è secondo il primo anno, primo nel ‘70, alla faccia della squalifica di sei mesi. Oltre a quello che aveva detto in campo, a Palermo, si era presentato in sala stampa esclamando: «Terra, mare, cielo e Toselli». Per i primi tre quarti, era lo slogan della Fiat. Il quarto era l’arbitro. Sdrammatizzò anche la squalifica: «Un allenatore in panchina serve a poco, dalla tribuna si vede meglio».
Dice Roberto Boninsegna
«Sapeva sempre sdrammatizzare. L’ho visto arrabbiato solo quando a tavola qualcuno faceva il coglione con i camerieri o, più facile, con le cameriere. Ragazzi, imparate a rispettare la gente che lavora, diceva, e non volava più una mosca».
Dice Comunardo Niccolai
«Mi ricordo una domenica a Milano. Si mangiano le solite cose del pre-partita, poi Albertosi e Riva si accendono una sigaretta. Scopigno: chi vi ha dato il permesso? Riva: di solito facciamo così. Scopigno: di solito ma oggi no. O spegnete la sigaretta o andate su, fate la valigia e tornate a Cagliari. L’hanno spenta. Scopigno era in anticipo sui tempi, vedi ritiri aboliti. Ogni allenamento lo concordava col medico, il dottor Frongia. Col clima mediterraneo, diceva che venti minuti tirati a Cagliari valevano due ore a Vicenza. Preparava la partita parlando separatamente con difensori, centrocampisti e attaccanti. Una novità. E la battuta su Niccolai in mondovisione, se l’ha detta, credo l’abbia detta con affetto ».
Dice Roberto Tomasini
Il libero, che in Messico non andò perché toccato duro da Benetti: «Aveva capito tutto del clima. Partivamo piano, magari subito eliminati in Coppa Italia, ma poi era tutto un crescere. Sapeva gestire i big ma anche gli altri. Aveva capito che i lunghi ritiri non uniscono ma incattiviscono. Parlava pochissimo, ma chiaro. Era di un’intelligenza tattica, ma anche umana, che sembrava di un altro pianeta. Come sembrava fantascienza lo scudetto. Bravo Scopigno ad abbassare la tensione, che pure era tanta perché sapevamo di rappresentare tutta l’isola».
Dice Gigi Riva
«Le squadre allora erano una via di mezzo tra il collegio e la caserma. Lui ci ha dato la libertà, e insieme la responsabilità. Lui ci ha dato fiducia, ma guai a sgarrare: finivi sulla lista nera, e a fine campionato andavi altrove. Ma non era solo battute, Scopigno. Il primo anno, mi vide col muso in aeroporto e mi disse: se hai bisogno, io ci sono. Come lui, mai trovato nessuno».
Curiosamente, Scopigno aveva messo d’accordo i giornalisti italianisti e quelli offensivisti. Esaltava gli attaccanti ma le sue squadre incassavano pochi gol (solo 11 il Cagliari- scudetto, resta un record). Perché parlava poco, e bisbigliando, ma non diceva cose banali. Gualtiero Zanetti lo riassunse così: «Ai ritiri crederebbe, ma non potendoli sopportare li elimina. Lo chiamano il filosofo, ma è uno degli uomini più pratici che si conosca. Fa tutto in funzione di ciò che gli va a genio e i calciatori finiscono per ragionare come lui. Non sopporta e fa trasferire gli insinceri, i maleducati, gli ignoranti, i vocianti, i piagnoni e i prepotenti».
Posso aggiungere che detestava ogni forma di retorica e anche l’esibizione del potere. Gli piaceva il cinema neorealista, era appassionato d’arte contemporanea e amico di Corrado Cagli. Leggeva moltissimo. Amava, riamato, Luciano Bianciardi, un altro che si distrusse bevendo e fumando oltre misura. Quando Scopigno smise, era già tardi. Dopo Cagliari, Roma (lanciò Di Bartolomei) e ancora Vicenza, finché il suo amico dottor Malaman non lo mandò in pensione nel 1976. Da pensionato, scrisse per anni un’arguta rubrica sul Giorno (Senza filtro, autoironicamente si chiamava). Dopo due infarti, fatale un aneurisma. Morì il 25 settembre 1993. Del grande calcio, ai funerali a Rieti c’erano solo Cera e Riva. Nessun minuto di silenzio sui campi, nemmeno a Cagliari. Dal gennaio ‘94 la tribuna-stampa del Sant’Elia è intitolata a Scopigno e dal 2005 a lui e a suo fratello Loris, pure calciatore e dirigente del Coni, lo stadio di Rieti, dove si svolge un torneo internazionale per Allievi. Nel 2002 è uscito l’unico libro su Scopigno, «Un filosofo in panchina» scritto da Giulio Giusti. E adesso che il Campo dei ricordi chiude, par di sentire una voce dal fondo, anzi un bisbiglio: «Ancora ‘ste vecchie fregnacce, ma non avete niente di meglio da scrivere?». No.
Gianni Mura
Articolo del 2014 , “La Repubblica”, della serie “Il campo dei ricordi”