“Dona” Orozina non ama soltanto l’insegnamento delle materie d’obbligo alle elementari di Belo Horizonte, ama anche il calcio, e quei cinque ragazzini che vede al termine delle lezioni contendersi una piccola palla di gomma, nel cortile della scuola, la mandano in sollucchero. Perché ogni giorno migliorano i “fondamentali”, imparano a dribblare e, uno, in particolare, già calcia al volo che era proprio un piacere. Quel campioncino in erba, specialista nei tiri in porta, si chiama Luiz de Menezes, appartiene ad una famiglia borghese di Belo Horizonte, destinato a diventare un professionista, con una sorella già insegnante di educazione fisica fidanzata con un aitante maestro di tennis.
Sono proprio la sorella, Luisa, e il cognato, a prepararlo adeguatamente sul piano fisico per aiutarlo a sostenere i primi impegni ufficiali in una squadra di quartiere, gli Aventureros, iscritta ai campionati giovanili. Corre l’anno 1947, il futuro campione della prima squadra di Belo Horizonte, città brasiliana di circa mezzo milione di abitanti, stato del Minas Gerais, di anni ne ha quindici e, per parenti e amici, è già Vinicio. Dagli “Aventureros” alla “Metallusina”, al “7 Settembre” di don Antonio Lunardi, suo grande mentore, e di Jair de Assis, suo primo maestro che, in allenamento, lo fa marcare anche da tre avversari per migliorarne tenuta e tenacia. Quel Jair che lo porta a completarsi come centravanti di sfondamento che si fa largo prepotentemente, a forza di gol, tra i moltissimi giovani emergenti del calcio di Belo.
Al punto che, a diciotto anni appena compiuti, fresco di iscrizione alla facoltà di architettura, il suo nome finisce nel taccuino del presidente del mitico Botafogo di Rio, Carlito Rocha. Affare fatto. Quattromilacinquecento cruzeiros al mese (novantamila lire al cambio di allora, 1951), vitto, alloggio e tasse universitarie pagate. Il giovanotto di provincia sbarca a Rio e mette timidamente piede nella società che ha dato al calcio mondiale fuoriclasse come Didi, Garrincha, Zagalo, Nilton Santos, Zezè Moreira, una sbornia d’orgoglio per mamma Giuditta, per “Dona” Orozina, la maestra-tifosa, per i nove fratelli de Menezes.
Tre stagioni nel Botafogo e diventa “il leone” quando un supertifoso invia pochi versi della domenica a un giornale sportivo di Rio per celebrarlo tale: “Vinicio, il tuo nome è accetto, con la tua fama di campione tu hai, nel petto, il cuore di un leone”. Sicchè, quando la società di Rocha decide di inventarsi una tournè europea per mettere in vetrina i suoi migliori giocatori, Pasqualini, mediatore specializzato in affari con i mercati sudamericani, suggerisce ad Achille Lauro anche il nome di quel “leone”. Don Achille sa che il Botafogo, dopo il Real, avrebbe fatto visita agli svizzeri del Grasshoppers e poi sarebbe arrivato a Torino per un’amichevole contro una mista Juve-Toro.
“Il Napoli acquisterà Vinicio” proclama ‘o comandante. Gino Palumbo, insuperato maestro di giornalismo e di vita, va a vedere l’amichevole: “Vinicius ci è piaciuto più del suo celebre compagno Da Costa. Il biondo calciatore – scrisse sul Mattino – a nostro avviso è un grandissimo centravanti: affiancarlo a Jeppson, regolamento federale permettendo, potrebbe essere una formidabile idea“.
Dopo Torino il Botafogo arriva a Roma, che già si prepara ad accogliere Da Costa in giallorosso. Altra bella prova del “Leone”: “Stavo sotto la doccia – racconterà Vinicio – a partita da poco conclusa, quando mi si avvicinò un signore simpatico, sorridente, in compagnia di Rocha. Disse il suo nome nel porgermi la mano, ma non capii molto. Poco dopo, invece, Carlito mi disse che era l’allenatore del Napoli, Monzeglio, il mio futuro tecnico nel Napoli di Jeppson, il centravanti che avevo tanto ammirato durante la Coppa Rimet del 1950”.
Il trasferimento si perfeziona a fine agosto del 1955 dopo aver “sistemato” un piccolo problema anagrafico: poiché ci sono tre stranieri nel Napoli (Jeppson, Pesaola, Vinyei), e ne sono consentiti solo due, si tenta di trovare un parente italiano a Vinicio. Un parroco di Aversa scova nella cittadina casertana una famiglia con il cognome della madre di Vinicio, Amarante, e sostiene che una donna con quel nome, emigrata in Brasile, è la nonna del giocatore. Senza i documenti necessari, la parola del parroco vale però zero e Lauro è costretto a cedere l’ungherese Vinyei. Piccolo aneddoto: quando si sparge la voce dei presunti parenti di Aversa, un giorno Vinicio è raggiunto all’Hotel Parker’s, dove alloggia, da una folla di aversani che lo chiamano zio e cugino e nipote mio. Avrà il suo daffare ad allontanarli.
Anno 1955 al Vomero, stadio di sogni, chimere e invasioni di campo, 18 settembre, Napoli-Torino, la prima partita di Vinicio in maglia azzurra. Fischio d’inizio e palla al centro. Vinicio tocca ad Amadei, il “fornaretto” passa indietro a Castelli, il mediano lancia in avanti, Vinicio parte a razzo ed è sulla palla, travolge Grosso e Bearzot e, dal limite dell’area, fionda un missile sotto la traversa del portiere Rigamonti. Gol in soli 40 secondi dall’inizio della partita. Un debutto fulminante. L’accoppiata Vinicio-Jeppson è battezzata “V2”, il nome del razzo tedesco progenitore di tutti i missili. Luis Vinicio è una vera forza della natura. Poco brasiliano, cioè senza fronzoli, magie e colpi di tacco, ma centravanti all’europea. In allenamento, piega le mani al portiere Bugatti. Si conquista l’appellativo di “leone”. Già in Brasile era stato definito “au leau do Botafogo”. Ma la “V2” non funziona per la rivalità e le gelosie fra i due attaccanti e per i troppi veleni nella squadra sotto la guida di Amadei. Il tandem esplode una sola volta, contro la Pro Patria (8-1), tre reti di Vinicio, due di Jeppson. Il doppio centravanti sarà l’illusione di mezzo campionato.
La stagione 1956-‘57 si conclude con un evento memorabile, il matrimonio di Vinicio nella basilica di San Francesco in Piazza Plebiscito, affollata di tifosi, gremita anche la piazza, e con Lauro compare d’anello dello sposo. Lei è un vecchio amore di Vinicio, Flora Aida Piccaglia, con nonni emiliani di Zocca. E’ un vero matrimonio alla napoletania: Vinicio scende in tight da una Cadillac, Flora lo aspetta con tredici metri di velo. Su un cartello issato in piazza c’è scritto: “Sposi a Napoli, felici per sempre”. Vinicio ha 25 anni e Flora 19. Un tifoso della Sanità, Alberto Annunziata, interviene portando con sé un ciuccio addobbato di azzurro. Un gruppo di mandolinisti suona: “Io t’ho incontrata a Napoli”.
Si sono conosciuti giovanissimi sulla spiaggia del Governatore, vicino Rio. Il padre di lei, grosso industriale dell’acqua minerale in Brasile, si oppone al fidanzamento della figlia con lo squattrinato giovanotto che ha interrotto gli studi di architettura per dare calci a un pallone. Il trasferimento di Vinicio in Italia tronca il rapporto tra i due ragazzi. La famiglia di Flora ha però l’abitudine di venire in Italia ogni primavera in visita ai parenti emiliani e un anno sosta a Napoli. La squadra azzurra si allena e gioca ancora al Vomero e i calciatori abitano sulla collina. A mezzogiorno scendono agli chalet di Mergellina per l’aperitivo, poi ognuno per conto suo prima di rivedersi all’allenamento del pomeriggio. Vinicio fa un giro in macchina per via Caracciolo occhieggiando le ragazze al passeggio. Ne vede un gruppo, le guarda con insistenza per accorgersi, incredibile a dirsi, che una delle ragazze è Flora.
Due anni di lontananza non hanno cancellato il sentimento nato in Brasile. Vinicio si presenta al signor Piccaglia, che ha preso alloggio con la famiglia in un albergo del lungomare, per dire: “Sono sempre uno che dà calci a un pallone, non sono diventato architetto, ma non sono più uno squattrinato”. L’industriale ride: “Lo so bene, sei diventato famoso e guadagni bene”. Luis e Flora hanno via libera al matrimonio che si celebra il 22 giugno 1957, di sabato. Per una singolare coincidenza, in un altro albergo del lungomare, quello stesso pomeriggio Hasse Jeppson festeggia l’annuncio del suo matrimonio con Emma De Martino che si celebrerà quattro giorni dopo al Faito con l’assenza indispettita di Lauro che non avendo gradito i contatti del centravanti svedese con l’Inter lo ha ceduto al Torino.
Le due ultime stagioni azzurre di Vinicio sono contraddistinte dal declino della squadra. Fallisce un nuovo tandem, quello tutto brasiliano di Vinicio e Del Vecchio. Amadei insiste con Lauro perché ceda Vinicio. «Non sta bene», dice l0allenatore al Comandante confermando la voce che il brasiliano sia affetto da un numero insufficiente di globuli rossi. In realtà, è in atto la “guerra” di Amadei contro Vinicio e il suo amico Pesaola. I tifosi, subodorata l’ipotesi che il brasiliano verrà ceduto, issano allo stadio un cartello che dice: “Vendetevi l’anima, ma non Vinicio”. Ma ormai lo spogliatoio azzurro è un covo di malumori e di clan. L’ultimo squillo del leone è il gol della grande vittoria (2-1) contro la Juventus nella domenica in cui viene inaugurato il “San Paolo”: 6 dicembre 1959, 80mila spettatori, 70 milioni di incasso. A fine stagione, Vinicio viene ceduto al Bologna in una scandalosa trattativa: il Napoli avrà dal club felsineo Pivatelli e Mihalic e salda il conto versando 122 milioni. Il Napoli precipitò in serie B.
Dopo una buona prima stagione fra i felsinei, l’anno successivo la sua stella viene oscurata da Nielsen e Vinicio nell’estate del 1962 decide di tornarsene sconsolato in Brasile. E qui entra nel vivo la sua esperienza con il Lanerossi Vicenza. Dopo un inizio di campionato un po’ claudicante e senza centravanti di ruolo, la dirigenza dei lanieri volge le sue attenzioni su un giocatore brasiliano che a Napoli è diventato l’idolo dei tifosi segnando 69 reti e che è passato al Bologna con poca fortuna per due anni, solo 17 gol e scaricato dal club felsineo. Il giocatore è già in partenza per far ritorno in Brasile e i dirigenti vicentini lo intercettano e lo bloccano sulla nave, proponendogli un contratto. Vinicio ha già trent’anni e si sente alla fine della carriera ma accetta e giunge a Vicenza in ottobre debuttando alla settima giornata a Roma dove il Vicenza vince 1- 0 con rete di Puia.
La cavalcata di quel campionato porta i biancorossi al 7° posto, dietro alle grandi, dando inizio ad un periodo d’oro per il Lanerossi Vicenza, squadra temuta e rispettata per anni da tutti gli avversari. La difesa di quell’anno è la mitica Luison Zoppelletto Savoini De Marchi Panzanato Stenti. Vinicio sigla 7 reti ma la sua voglia di giocare al calcio, la sua potenza in area e nel tiro dà vigore a tutto il reparto portando a segno Puia (10) Vastola (5), Humberto (4), Menti (3), Campana (2). Ancora meglio per la squadra l’anno successivo classificandosi 6°, unica rappresentante veneta in Serie A, e vincendo per due anni di seguito lo scudetto delle provinciali messo in palio da Tuttosport. Vinicio segna a ripetizione nella prima parte del campionato con il compagno di linea Vastola, (la coppia verrà soprannominata V2) portando il Lanerossi in testa alla classifica con il Milan. Alla fine del campionato Vinicio segna 18 reti e Vastola 7.
Il campionato seguente i lanieri scendono al dodicesimo posto ma i due si ripetono: Vinicio 12 reti e Vastola ancora 7. Il meglio deve ancora arrivare: nel 1965-‘66 Vinicio diventa capocannoniere della serie A con 25 reti e la squadra conquista una splendido sesto posto in classifica. Non c’è più Vastola ma al suo fianco è arrivato Maraschi assieme a Colausig, De Marco,Carantini e i giovani Poli e Fontana. Se ne è andato anche Scopigno e alla guida della squadra c’è Campatelli, La città si infiamma: una grande vittoria in casa sul Milan 1-0 e sonante finale di campionato a Bologna 3-0 con tutti gol di Vinicio e per Vicenza è un trionfo.
Luis Vinicio è sulla bocca di tutti a 34 anni, lui che credeva di aver finito la sua carriera quattro anni prima. Il suo arrivo a Vicenza porta la squadra a raggiungere vertici inaspettati, la sua simpatia e semplicità lo rendono, come già successo a Napoli, l’idolo dei tifosi biancorossi, ma le esigenze di bilancio della società e la chiamata del mago Herrera lo portano a Milano, per una annata nebulosa.
“Fu il presidente Angelo Moratti a volermi. Il contratto era vantaggioso, la piazza importante, l’organico fortissimo. Come avrei potuto rifiutare? All’inizio il mio rapporto con Helenio Herrera fu ottimo. L’allenatore aveva chiesto una punta di peso, capace di aprire i varchi per Mazzola, che prediligeva partire da dietro. Giocai le prime cinque partite, aiutando Sandro a segnare una mezza dozzina di gol. Gli stranieri nella rosa erano però quattro, troppi per le limitazioni di allora. Oltre a me, c’erano Suarez, Jair e Peirò. Potevano giocare soltanto due e per me non ci fu quasi mai posto. Non venivo nemmeno convocato e così presi l’abitudine di trascorrere ogni week-end in montagna, dove imparai a sciare. Trascorsi insomma un anno da turista prima di tornare a Vicenza”.
La grande squadra non lo esalta e l’anno seguente torna a Vicenza dove metterà tutta la sua grinta per quella che sarà l’ultimo campionato della sua carriera. Sono sette i gol messi a segno ma Vinicio preferisce appendere le scarpe al chiodo e terminare con onore lasciando così un segno indelebile e un ricordo esaltante.
Terminata l’attività agonistica nel 1968 alla bella età di 36 anni inizia subito ad allenare facendo apprendistato con Internapoli (che al tempo schierava Chinaglia e Wilson), Brindisi e Ternana.
Nel 1973 la grande occasione della serie A e del Napoli dove applica per primo in Italia il “new deal” del gioco all’olandese. Ricorda Vinicio: “Secondo me la zona resta il tipo di gioco più redditizio. Ricordavo i miei tempi da calciatore. C’erano delle marcature strettissime, si giocava per novanta minuti fuori dalla propria zona perché si doveva seguire il proprio uomo ovunque. Veniva così tolta alla squadra la possibilità di esprimersi, di imbastire azioni. Invece, un avversario deve essere controllato dal giocatore più vicino a lui. In possesso di palla, il discorso è diverso, tutti devono partecipare, mettersi a disposizione affinché la palla giri. Ricordo che in tutte le mie squadre, dall’Internapoli al Brindisi alla Ternana, avevamo un gioco fluido, bello. Ci vogliono giocatori all’altezza, che sappiano marcare e giocare. Inutile fare la zona quando hai uomini poco disponibili. Nel Napoli, al primo anno, non fu possibile, perché il libero era Zurlini: lento, comportava dei rischi. Ma con l’arrivo di Burgnich, impiegato in linea con i difensori, applicammo la zona totale. Ne parlai con i miei giocatori, che furono entusiasti. Basta rigide marcature a uomo, invece controllo a zona, pressing e fuorigioco. Quando perdemmo per 6-2 una partita casalinga contro la Juve, chiesi ai ragazzi se preferissero tornare indietro. Macché. Mi implorarono tutti di proseguire l’esperimento. Così facemmo: assimilato il modulo, disputammo un campionato straordinario”.
Infatti: nel campionato 1974-‘75 il Napoli giunge secondo a due punti dalla Juventus. La stagione successiva pur disponendo del centravanti-miliardo Beppe Savoldi si conclude però con un deludente quinto posto seppur mitigato da una Coppa Italia. Nel 1976-‘77 viene chiamato ad allenare la Lazio dove deve pilotare il delicato periodo del dopo Maestrelli. Il tecnico brasiliano, però, è l’esatto contrario di chi lo ha preceduto: se Maestrelli riusciva a tenere in mano lo spogliatoio pur dando libero sfogo alla personalità dei singoli giocatori, Vinicio incarna invece l’atteggiamento contrario.
Per la sua forte personalità viene considerato un “sergente di ferro”, atteggiamento questo che gli aliena le simpatie della vecchia guardia e che lo porta a frenare con severità l’esuberanza di giovani come Giordano e Manfredonia. Il primo anno Vinicio conclude il campionato al quinto posto, piazzamento che gli vale la conferma per la stagione successiva.
Sembra l’inizio di un nuovo ciclo vincente, ma la stagione successiva (1977-‘78), proprio a causa delle scelte di Vinicio, sarà difficile. In fase di calciomercato, arrivano solo i suoi pupilli, già allenati a Napoli, Sergio Clerici, 36 anni, e Luigi Boccolini, 29 anni. Inoltre decide di accantonare Pulici (ceduto ad ottobre al Monza dopo 150 partite consecutive) e lanciare il giovane Garella. Il suo carattere deciso si scontra poi con il gruppo a cui cerca di imporre la difesa a zona. La Lazio lotta per non retrocedere, Garella paga la sua inesperienza con parecchi errori (ribattezzati dai tifosi “garellate”). Dopo un discreto inizio di stagione (da ricordare la vittoria per 3-0 all’Olimpico contro la Juventus), la squadra si sfalda. In Europa viene eliminata al secondo turno dai francesi del Lens (6-0 dts al ritorno). La società decide di esonerarlo alla 24° giornata dopo la sconfitta contro il Foggia.
Nell’ottobre 1978 Ferlaino richiama a sorpresa Vinicio sulla panchina del Napoli. Gianni Di Marzio viene infatti esonerato sopo sole due partite di campionato. O’Lione trova in azzurro i nuovi acquisti Castellini, Caso, Majo, Filippi, Tesser e Pellegrini, mentre deve fare a meno di Chiarugi, La Palma, Pogliana, Mocellin, Stanzione e nientemeno Antonio Juliano che dopo 16 anni a Napoli viene esiliato a Bologna. Il campionato del Napoli è incolore, e nonostante il ritorno in panchina di Vinicio vede gli azzurri battere la Roma 1-0, al San Paolo, proseguirà in maniera altalenante. A volte lo spettacolo è deprimente e dopo la sconfitta con l’Inter per 2-0, i partenopei collezioneranno ben 8 pareggi consecutivi, prima di tornare alla vittoria contro il Verona per 1-0. La stagione successiva è se possibile peggiore. La squadra risente della partenza di Savoldi e Vinicio non riesce a trovare soluzioni valide per l’attacco. Alla fine le reti segnate dai partenopei saranno solo 20 e per ben 18 gare su 30 la squadra uscirà dal campo con le polveri bagnate. O’Lione è al capolinea e Ferlaino lo sostituirà con Sormani a poche partite dalla fine della stagione.
Da Napoli ad Avellino: sempre in Campania si rimane. Vinicio viene chiamato dal presidente degli Sibilia per salvare gli irpini, zavorrati dalla penalizzazione del calcioscommesse (partirà da -5). L’avvio non è dei migliori, due sconfitte, ma alla fine O’Lione riuscirà nell’impresa valorizzando oltretutto due talenti giovanissimi some Stefano Tacconi e Beniamino Vignola, oltre a svezzare per il calcio italiano il talentuoso Juary. Il miracolo sembra ripetersi anche nella stagione successiva fino a quando, e siamo nel marzo 1982, Vinicio rassegna a sorpresa le dimissioni in contrasto con Sibilia che aveva proposto una continuazione del contratto solo in caso di vittoria nel derby contro il Napoli. Lascerà alla stampa questa dichiarazione: “E’ una scelta che mi costa molto ma che ritengo necessaria nell’interesse della società e mio personale. Purtroppo ho la certezza che non sussistano attualmente le condizioni per portare avanti il mio programma”.
Un altro presidente a dir poco vulcanico, Romeo Anconetani, vuole assicurarsi la guida di Vinicio. Il neopromosso Pisa è la nuova destinazione di O’Lione che inizia bene il campionato ottenendo, nelle prime cinque giornate, due vittorie e tre pareggi prima di assestarsi nelle retroguardie e raggiungere comunque una comoda salvezza.
Percorso ad ostacoli nella stagione successiva: Anconetani non conferma Vinicio e sistema Bruno Pace in panchina salvo poi ravvedersi e richiamare il brasiliano che comunque non riuscirà a garantire la serie A alla squadra toscana. E’ la sua prima retrocessione in carriera.
Ormai la carriera di Vinicio volge al declino. Non più di anonime restano le ultime prestazioni in panchine di serie A con Udinese e ancora con Avellino, tutte e due condite da un esonero dopo una prima e non più che sufficente stagione.
O’Lione è stanco, la vena e le innovazioni che lo avevano contraddistinto nei suoi primi anni con il Napoli sono ormai sparite. L’ultima apparizione risale alla stagione 1991-‘92, serie C2. Alla guida della Juve Stabia il Leone emette l’ultimo ruggito da allenatore riuscendo a salvare la squadra campana dalla retrocessione.