Lui entrò in campo, loro uscirono dallo stadio. Lui aveva un nome lunghissimo e una storia breve. Si chiamava Akeem Oluwashegun Omolade, la sua storia durò ventitré minuti più recupero. Aveva diciotto anni, era nato a Lagos, in Nigeria. Giocava nel Treviso. Loro erano i tifosi del Treviso. Lui aveva una colpa: aveva la pelle nera. Loro avevano un motivo: erano razzisti.
Accadde il 26 maggio del 2001, a Terni: Ternana-Treviso, campionato di serie B. Entrò in campo al minuto ventidue della ripresa. La prima cosa che sentì fu un coro: “Il negro non lo vogliamo”. Abbozzò uno scatto, rincorse un avversario, andò in contrasto, perse il pallone. Cercò di fare finta di niente. Ma il coro non smise: “Il negro non lo vogliamo”. Erano una trentina, ma si fecero sentire: il resto del pubblico dello stadio Liberati di Terni rimase in silenzio.
Due minuti dopo la sua entrata in campo, loro se ne andarono. Ripiegarono gli striscioni e lasciarono lo stadio, nel silenzio più assoluto. Il Treviso perse la partita e retrocesse in serie C. Il giorno dopo finirono in prima pagina. Lui e loro, l’attaccante che aveva la pelle near e i suoi tifosi che ce l’avevano bianca: lui e loro, insieme.
I giornali rispolverarono il vecchio ritornello dei “soliti imbecilli da non confondere con la maggioranza dei tifosi”. Lui disse solo: “Peccato: mi hanno fatto stare male”. Sette giorni dopo i compagni del Treviso si dipinsero la faccia di nero e contro il Genoa scesero in campo che sembravano tanti Omolade. Era un modo pulito per dire: noi siamo con te.
Il sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini commentò così: “Hanno scelto il colore giusto, il nero della vergogna. Razzismo? Macché. Se la squadra si impegnasse veramente allora non ci sarebbero contestazioni“. Non era esattamente un attestato di solidarietà. Gentilini era lo stesso che qualche tempo prima aveva fatto togliere le panchine dal centro storico di Treviso. “Così gli extracomunitari non si siedono”, spiegò.
Un mese dopo Omolade venne ceduto al Torino. Quell’anno non giocò neppure una partita. Era giovane, era uno dei tanti, non era neanche granché bravo. Fece molta panchina, e alla faccia di Gentilini, nessuno pensò di togliergliela da sotto il sedere.
Furio Zara