“Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi (…). Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme”. Con queste parole ne I sommersi e i salvati Primo Levi spiegò una partita fra SS e membri del Sonderkommando, i prigionieri addetti alle camere a gas e ai crematori. Ad Auschwitz capitava di giocare a pallone. Si giocava in un campo allestito a pochi passi dai forni di Birkenau, come nei nelle piazze d’armi. Rarissime le partite “miste” aguzzini-prigionieri, possibili solo coi Sonderkommando; più frequenti quelle fra reclusi: un modo come un altro per accrescere la produttività degli schiavi del Terzo Reich.
Ebrei, zingari, dissidenti, omosessuali. Non c’era pietà per nessuno, nemmeno – come ha evidenziato Andrea Lucchetta sulla “Gazzetta dello Sport” – per chi si era guadagnato una medaglia combattendo per la Germania nella Grande Guerra qualche anno prima: Julius Hirsch – primo ebreo a indossare la maglia della nazionale tedesca, autore di un poker di reti contro l’Olanda nel 1912 – non uscì mai dal cancello del lager. Come Eddie Hamel, ala destra newyorkese e primo ebreo nella storia dell’Ajax, idolo dei tifosi, ucciso dopo mesi di fame e gelo. Un compagno di prigionia ricorderà le notti passate contro la schiena dell’americano, nel tentativo disperato di vincere l’inverno. Antoni Lyko, detto “l’uomo senza nervi” per la freddezza sotto porta, ad Auschwitz disputò il suo ultimo incontro: il giorno dopo le SS gli spararono in testa, in rappresaglia a un attacco dei partigiani polacchi.
Non c’era pietà per nessuno, solo il capriccio di qualche aguzzino annoiato. Leo Goldstein – guardalinee in Cile-Italia del 1962, la “Battaglia di Santiago” – si salvò a pochi passi dalla camera a gas, quando era ormai nudo, in fila per le “docce”: alle SS serviva un arbitro, lui conosceva vagamente le regole e si offrì volontario. Un miracolo, come quello di Ignaz Feldmann, ex giocatore dell’Hakoah Vienna: venne riconosciuto da una guardia che lo aveva sfidato con l’Austria Vienna e finì sotto la sua protezione.
Fra i sommersi troviamo Raffaele Jaffe, fondatore del Casale che vinse lo scudetto nel 1913-‘14: convertito al cattolicesimo dopo il matrimonio, fu comunque spedito ad Auschwitz in un vagone piombato e poi ucciso.
Come Árpád Weisz, allenatore ungherese che rivoluzionò il calcio italiano: padre dello scudetto interista nel 1929, scopritore di Giuseppe Meazza, architetto del Bologna che tremare il mondo faceva: gli emiliani lo scaricarono dopo le leggi razziali, costringendolo a un vagabondaggio concluso solo nel più grande dei lager. La sua storia rimase incredibilmente nell’oblio fino al 2007, quando Matteo Marani la raccontò in un libro. Ce ne vorrebbero centinaia, se non migliaia, per ricordare tutti i professionisti del pallone portati via dal vento di Auschwitz.