Il primo fu Tony Giammarinaro, il capitano della Primavera del Torino che conquistò il cosiddetto scudetto delle lacrime dopo Superga. Poi, spiccano i fratelli Sattolo e, in particolare, quel Franco nato a Fiume, figlio della lattaia del quartiere, portiere di Sampdoria e Toro negli anni Settanta. Fino agli ultimi, i “giovani” (anche se ora sono vicinissimi alla settantina o l’hanno appena superata) che chiudono la storia dei calciatori nati nei cortili del Villaggio dei Profughi di Santa Caterina. Livio Manzin, centrocampista di Bari e Lecce, e Giorgio Mastropasqua, libero di Juve, Atalanta, Lazio.
Torino 1956
Il Villaggio vive da oltre mezzo secolo diviso da via Parenzo. Spina dorsale dei tre isolati di periferia sormontati dalle “case rosse”. Mattoni, cemento e famiglie arrivate da paesi lontani. In gran parte, esuli fiumani, istriani e dalmati. Nel dopoguerra, accantonati gli anni trascorsi nelle baracche, si trasferirono al confine tra Lucento e Vallette. A Torino ’56 collezione di prati rosicchiati dalla città in espansione. Santa Caterina, è una favela nostrana senza samba e narcotraffico, ma con una passione smisurata per il pallone. Un “Villaggio di calciatori”, nessun altro quartiere può vantare una concentrazione così alta.
Tre generazioni
Fulvio Aquilante, classe 1943, presidente del comitato degli esuli Anvgd divide la storia pallonara del Villaggio in tre generazioni: quella dei ragazzi cresciuti nei campi profughi guidata da Claudio Rimbaldo, che nel 1961 vinse la Coppa delle Coppe con la Fiorentina, e Luigi Bodi, 113 presenze in Serie A con Toro, Bologna e Atalanta. “Poi, c’è la mia, quella di Sergio Vatta, lo storico allenatore dei giovani del Torino, dei Sattolo. Avevamo la grinta, ma agli allenamenti preferivamo la birreria. Eravamo poveri, molti scelsero la fabbrica. Il più forte? Luciano Palin, promessa granata cancellata da un infortunio”. D’Alessandro fu l’esterno della Reggina, Bruno Luciano giocò in nazionale semi-pro, alla Turris, all’Empoli. E Guccione, bandiera del Nardò in C.
L’ultima infornata di campioni nasce dopo il 1950. Il simbolo è Giorgio Mastropasqua. Divenne professionista alternando gli allenamenti nelle giovanili bianconere e il lavoro. “Venni scoperto da Concas, il Moggi della San Giusto, la quadra del quartiere, mentre palleggiavo sotto casa – dice il figlio di rimpatriati greci -. Allora non avevamo nulla e il calcio era tutto. Avevamo fame: quella vera e quella di affermarci”. Il difensore si è trasferito a Bergamo, ma il padre aveva vissuto ancora in via Parenzo. “Allo stadio facevo sempre entrare gratis tanti amici. Una volta, siccome c’era uno sciopero, per non farli tornare a casa a piedi, li feci salire sul pullman della Juve, seduti vicino a Zoff”.
Nuovi residenti
Le partite si giocavano in strada o nei cortili. Poi, per tanti anni, sono rimasti deserti, privi di bambini. L’assegnazione e il riscatto degli alloggi, ha rallentato il ricambio tra i residenti. Oggi gli eredi dei “campioni” del passato hanno cognomi di Paesi lontani come Marocco e Romania. In via Sansovino, c’è ancora il mitico campetto della chiesa di Santa Caterina. “Ogni domenica, c’erano centinaia di tifosi”, dice Marino Marussi, giocatore all’Aquila nel 1960. Il calcio fu divertimento, ma non solo. Fu il collante di una comunità nata da zero.