Esistenza pirandelliana quella di Alviero Chiorri che tra essere uno o centomila a 33 anni, preferì smettere e diventare «nessuno». Come un Rimbaud del pallone, dopo sedici stagioni passate all’inferno del calcio, appese le scarpe ed è ripartito dal paradiso di Cuba.
«Avevo bisogno di tornare ad essere un perfetto sconosciuto. Essere apprezzato prima di tutto come uomo, perché la notorietà mi ha sempre dato fastidio».
Parla pacato, il redivivo Chiorri, scuro nell’abito da Dylan Dog, il codino mesciato su una faccia abbronzata dal sole de L’Avana, mentre sorseggia un aperitivo in un baretto di Torrimpietra, a due passi dal mare. Quel Tirreno che risalì fino a Genova per diventare un piccolo grande eroe della Sud doriana. «La Samp mi prese dalla Pro Roma che avevo 15 anni: a 17 (stagione ’1976-’77) Bersellini mi fece esordire in Serie A».
Doveva essere l’inizio di una storia da scrivere a caratteri d’oro, come lo scudetto che il sergen te Bersellini andò a vincere due anni dopo in un’Inter, in cui avrebbe volentieri apprezzato anche la fantasia dell’Alviero.
«Bersellini mi voleva portare, poi l’Inter prese Beccalossi. Così rimasi a Genova. Alla gente di Marassi piacevo da impazzire, ma sentivo di essere caduto in un gioco più grande di me. Oggi i ragazzi che fanno il loro esordio in A molto presto, sono mentalmente più preparati. Io invece non mi sapevo gestire».
Ingestibile al punto da essere spedito in prestito a Bologna dove incontrò i suoi due gemelli minori, Mancini e Macina.
«Costituivamo un trio favoloso. Tecnicamente Macina era il più forte, ma la differenza tra noi la faceva Roberto, più potente, più calciatore. Ho capito con gli anni che nel calcio non è solo questione di tecnica, il campione vero è più completo sotto tutti gli aspetti. Penso a Van Basten, il più grande che ho incontrato, ma anche a uno come il “Mancio”».
Il giovane Mancini stregato dai suoi numeri, lo seguì l’anno dopo, alla Samp per quello che doveva essere un ritorno da principe. E invece…
«La Sampdoria stava crescendo, ma io non andavo di pari passo e a un certo punto il presidente Mantovani fu costretto a cedermi alla Cremonese. Quando mi salutò aveva le lacrime agli occhi e mi disse: “Alviero, sei stata la più grande delusione della mia vita”. Quella frase me la sono portata dentro fino all’ultimo giorno che sono sceso in campo».
Ma a Cremona trovò l’amore del presidente Domenico Luzzara e lo stadio Zini conserva ancora il ricordo delle sue esibizioni come le più belle perle di una storia centenaria.
«Ho sempre cercato la giocata impossibile e lo facevo perché avevo solo un disegno in testa: far divertire la gente. Appartengo a quella categoria di giocatori che piacciono tanto ai tifosi e molto poco agli allenatori, perché non sanno trovargli una collocazione in campo, quindi se girano bene, altrimenti li fanno dannare. E io li ho fatti dannare tutti».
Una dannazione gettata alle spalle da quel 24 maggio 1992. Quel giorno, proprio contro la sua Samp a Marassi, decise di smettere, portandosi via gli ultimi applausi di una curva, e qualche rimpianto.
«Per esempio quello di non aver mai segnato nel derby contro il Genoa. Questa è una delle poche cose che mi mancano di quegli anni. Come mi mancano gli scontri duri, ma sempre leali con il povero Gorin. Finita la gara si andava a bere insieme in un locale dove cantavano i nostri amici New Trolls».
Carezza della sera genovese, ritrovata appena calciato via un pallone al di là dell’Oceano.
«Ho smesso quando ho sentito il peso del tradimento. Tradito da un mondo che forse non era mai stato completamente il mio. Sono sempre più convinto di essermene andato via quando si cominciava a giocare ovunque fuorché in campo. Prima che il calcio diventasse solo mercato e compromessi. E quelli proprio, io non ho mai saputo cosa siano. Abito a L’Avana dal 1994, la mia vita ormai è laggiu’. Quando ho smesso con il pallone ci sono andato in vacanza per 15 giorni; mi è piaciuta e ci sono tornato per tre mesi. Alla fine ho deciso di stabilirmi a L’Avana: ora ho una figlia, una bellissima figlia mulatta».
La serie A la guarda mai?
«Seguo solo la mia Sampdoria. Ma non vedo campioni. Temo che questo, però sia il problema del calcio di oggi. Io non giocavo ne’ per i miei compagni, ne’ per l’allenatore».
Per se’ stesso?
«Non ci siamo, non ha proprio capito: giocavo per il pubblico, solo per il pubblico. Godevo quando riuscivo a far divertire la gente, a stupire i tifosi con la giocata più difficile, quasi impossibile».
Parliamo di look: calzettoni giù, maglietta fuori. Perchè?
«Per pigrizia, poi e’ diventato un modo di apparire: ero un simbolo per molti ragazzini. Ma il mio segreto erano le scarpe. La sinistra era sempre estiva, a 13 tacchetti in gomma, la destra sempre invernale, a 6 tacchetti in ferro. Volevo essere ben piantato sulla gamba d’appoggio, ma libero di fare giochetti e calciare con facilita’ con il mio piede preferito…».
Torniamo alle giovanili della Samp. Prime soddisfazioni e primi guai?
«La nazionale Juniores. A Coverciano mi dissero: Alviero, sei convocato per i Mondiali in Tunisia. E io: voi siete pazzi, io devo andare al mare con i miei amici, non vengo!».
Risultato?
«Allodi e l’allenatore Acconcia su tutte le furie: Via Vattene da qui!!! Mi sono allontanato scortato da due carabinieri: da quel giorno, addio alla maglia azzurra…».
Bel caratterino. Scusi perchè ride?
«Bersellini mi chiama per il mio primo raduno in prima squadra. Una di quelle presentazioni ufficiali in cui si arriva in divisa, eleganti e precisi. Mi presento e…».
…E?
«Tre orecchini, catenona d’oro, bermuda e sandali. Venivo direttamente dalla spiaggia… Non capivo che ero un professionista. Avevo una testa diversa, volevo solo divertirmi, e lo facevo, in campo e fuori. Alla Samp eravamo un bel gruppo, frequentavamo un bar dove suonavano i New Trolls, presto siamo diventati amici…».
Un anno in prestito al Bologna, poi il ritorno alla Samp per due anni e l’addio.
«La squadra cresceva, ma io non stavo al ritmo dei compagni. Mi chiama Mantovani con le lacrime agli occhi: Alviero, ti devo cedere. Sei Stato la più grande delusione della mia vita: con la tua tecnica chissà dove saresti potuto arrivare…».
Rimpianti?
«A Genova stavo bene, mi ero sposato e avevo un figlio. I tifosi impazzivano per me e quella squadra, pochi anni dopo, sarebbe arrivata allo scudetto. Ma io ero troppo immaturo: me ne sono andato alla Cremonese, in cambio di Vialli…».
Dal presidente Luzzara.
«Aveva da poco perso un figlio e mi rivedeva in quel ragazzo, mi coccolava e mi aiutava. Mi hanno cercato tanti grandi club, ma non me la sono più sentita di lasciarlo… Di quegli anni mi ricordo Lombardo. Guardi qui la figurina, aveva ancora i capelli: li ha persi perchè correva troppo veloce!!!».
Il gol piu’ bello in grigiorosso?
«Col Messina ero in panchina, ultimi secondi di gioco, punizione dal limite per noi. L’accompagnatore si butta ai miei piedi e mi strappa la tuta, mentre il mister mi butta in campo senza riscaldamento. Mi ritrovo in campo senza accorgermene, sistemo il pallone e pum: palla oltre la barriera e gol!».
La stagione più brutta?
«1988-’89: non sto più bene. Stanco, svogliato, nervoso: non ho entusiasmo, vorrei smettere, litigo con tutti. Depressione, esaurimento nervoso. Prima rifiuto i medicinali, ma alla fine mi devo ricoverare in clinica. Quattro mesi di cure, psicofarmaci, e il cortisone che mi ha gonfiato e sono sovrappeso di 15 chili. Agli spareggi vengo convocato: sfida con la Reggina che vale la promozione e finisce ai rigori. Il mister mi manda in campo per i tiri dagli undici metri: tocca a me, prendo la rincorsa ma mi tornano in mente la depressione, la clinica e tutto il resto. Il tiro e’ sbilenco, fuori. Mi crolla tutto addosso, ci risiamo… Sto piangendo di rabbia quando arriva Rampulla: Tranquillo Alviero, ci penso io! Va in porta: tiro, parata; tiro, parata.Cremonese in serie A, io rinato».
L’avversario più duro?
«Gorin. Una volta dopo 10 secondi mi ritrovo già a terra: era un suo tackle. Ma era un ragazzo corretto: quando ci incontravamo per strada mi ripeteva: Scusa Alviero, ma questo è il mio ruolo…».
Il difensore con cui si è divertito di più?
«Coppa Italia a Firenze: mi marca Roggi. Io scatenato, in una di quelle giornate: finte, controfinte, dribbling, tiri, passaggi impossibili. Finchè sento una voce alle spalle: Ragazzino, ci hai rotto le palle. O la smetti o ti fermiamo con le cattive. Era Antognoni che difendeva il suo compagno….».
Ha fatto una cazzata in carriera?
«Tutta la mia carriera e’ stata una cazzata… Mi piacerebbe riprovarci con la testa di adesso: ci sarebbe da divertirsi…!» .