Antonio Sabato, siciliano classe 1958, giocava mezzala o ala ambidestra. Emigrato da giovane al Nord, iniziò a giocare nell’Inter, con cui esordì in serie A il 7 novembre 1976 contro il Torino. A 19 anni fu dato in prestito al Forlì, in serie C. Da titolare condusse la squadra romagnola al mantenimento della categoria, che fruttò il passaggio in serie C1, dove Sabato fu ancora protagonista. Nel 1979-‘80 esordì in B con la maglia della Sambenedettese. Non fu un’annata fortunata sul piano delle presenze (appena 16), ma gli valse la chiamata del Catanzaro in serie A. Per un biennio è stato titolare inamovibile. L’Inter si accorse di lui e lo fece rientrare. Anche con i nerazzurri Sabato si confermò nell’undici titolare e venne premiato per la sua umiltà dai tecnici Marchesi, Radice e Castagner. Nel 1985-‘86 passò al Torino, contro cui aveva esordito in A, perché incompatibile con Liam Brady.
Rimase in Piemonte per quattro stagioni, per poi passare all’Ascoli, che accompagnò nel ritorno in serie B dopo i fasti degli anni Ottanta. Chiuse la carriera nell’Alessandria in serie C. In totale ha giocato 283 partite (con 14 reti) in serie A, 46 (e 2 gol) in serie B e 58 partite (3 i gol) in serie C. Sabato venne lanciato in Nazionale da Azeglio Vicini, allenatore dell’ Under 21, che lo fece esordire il 6 ottobre 1982 nell’1-1 contro l’Austria. A fine stagione anche Cesare Maldini, allenatore della Nazionale olimpica, prese in considerazione il centrocampista nerazzurro, facendogli giocare le qualificazioni e portandolo con sé ai Giochi di Los Angeles 1984, in cui l’Italia arrivò quarta alle spalle della Jugoslavia. Il 3 marzo 1984 ebbe modo anche di esordire anche nella Nazionale maggiore, nel 2-1 imposto alla Turchia, subentrando a Giuseppe Dossena. Giocò anche contro Canada (2-0), Stati Uniti (0-0) e Svizzera (1-1), disputando solo quest’ultima gara da titolare (peraltro sostituito al 77′ da Ubaldo Righetti). In totale, Sabato ha disputato 4 partite con la Nazionale A, 11 con l’Olimpica e 1 con l’Under 21.
Vi proponiamo un interessante articolo comparso nel 2003 su “La Repubblica”.
Il tic-toc in mezzo al campo. Il tic-tac dell’ orologio. Passato e presente di Antonio Sabato differiscono solo di una vocale, ma è una vocale che da un campo di calcio pestato con maglia nerazzurra o solo azzurra porta al banco di un negozio di orologiaio in corso Buenos Aires. «Succede, succede, che qualcuno entri, mi guardi e dica: “Io a lei l’ ho già vista da qualche parte”. Io faccio finta di niente, mi limito a un sorrisetto e a frasi di circostanza, tipo “Chissà, magari in giro, succede, somiglierò a qualcun altro” o cose così. Non mi vergogno affatto della mia carriera calcistica, però preferisco così». Sarà per questo che alle pareti non c’ è una sola foto di lui quando dirige il centrocampo di Inter, ma pure di Torino, Catanzaro e Ascoli in serie A. «Guardi, ho giusto nel retrobottega questa cartolina “I love Inter” col cuore in nerazzurro, ma l’ ho levata dalla vetrina la mattina del 6 maggio dello scorso anno, lasciamo stare».
Il tic-tac nasce proprio dal tic-toc periodo interista: «Era il 1985, io e Carletto Muraro, assieme a un mio amico non calciatore, abbiamo aperto questo negozio. Sempre qui, in corso Buenos Aires. Un investimento come tanti, come si usava: noi calciatori dei tempi guadagnavamo molto meno di quelli attuali, e proprio per questo pensavamo a pianificarci il futuro, non solo a spendere e spandere e poi chissà. Molti colleghi aprivano il bar o il ristorante, noi abbiamo puntato su questo perché amo gli orologi fin da bambino, li collezionavo anche da giocatore». D’ altronde gli orologi sono sempre stati una passione dei calciatori assieme alle donne e alle macchine: «Solo che io sono sposato felicemente e la macchina mi va bene quella che ho, non restava altro». All’ inizio un semplice investimento, perché il mestiere rimane il pallone, alla bottega pensano i commessi, «e noi ci limitiamo a qualche visita pastorale, a venire a vedere se tutto va bene, perché almeno un poco l’ investimento deve sempre essere seguito. Onestamente pensavo che sarebbe restato solo una fonte di reddito in più anche finito di giocare. Invece». Invece succede che l’ Alessandria, dove Sabato chiude la carriera nel 1995, non rispetti un accordo, «la promessa che sarei diventato direttore sportivo. Invece niente. Lì ho capito che, se era quello il mondo che mi aspettava, col calcio era meglio lasciare stare, trasformarlo solo in una passione di cui chiacchierare con gli amici. Meglio fare qualcosa di totalmente diverso e totalmente mio, senza dover dare conto a nessuno. Molti restano spiazzati quando chiudono davvero, non hanno nulla in mano. Io in mano ho una sola cosa, però è questo negozio. Mi ci sono buttato senza problemi né paure».
E senza Carletto, che nel frattempo ha deciso di fare l’ allenatore. Da imparare in fondo c’ è poco, «mi sono limitato a capire come si cambia una pila o un cinturino, piccoli lavoretti del genere. Comunque è stato facile anche imparare da zero, mi piace farlo, almeno per le cose che mi appassionano». Dietro il bancone, a servire il cliente spaesato, perché quel viso lì chissà mai dove l’ ha già visto («Lei non ha idea di quanti rappresentanti di orologi sono interisti»). O nel retrobottega a incastrare nell’ orbita il monocolo con lente e ravanare con la pinzetta tra gli ingranaggi. Sempre però con passione e precisione, le stesse che metteva, quando doveva servire in profondità Altobelli o allargare il gioco smistando per Causio sulla destra. Tra lanci e lancette, che differenza c’ è? «Poca. Io sono uno regolare. Ho sempre avuto il mio ritmo, forse compassato a guardarlo con gli occhi di ora, ma sempre costante nel rendimento. Come un orologio, lento ma inesorabile». Ecco che tutto si spiega. Si spiega anche perché, lento e inesorabile, Sabato alla fine è arrivato a espandersi. «L’ anno scorso con un mio amico, Salvatore, che fa il commesso in un negozio qui accanto, abbiamo aperto un negozio di abbigliamento per uomo. Sempre in Buenos Aires, al 90, così è comodo andare a buttare un occhio o dare una mano. Ma non è solo questo: è che non riesco a immaginarmi in un’ altra strada che questa, a Milano, è la via commerciale più importante. Qui ci sono gli affari, qui c’ è la vita». E la vita non è più su un campo di calcio, ormai: «Forse toccherà a mio figlio Niccolò, ha 13 anni, gioca anche lui, e anche lui a centrocampo. Ha talento, però ha poca fame. Io ne avevo molta di più, fame morale che derivava da quella fisica, giocavo anche per fare stare un po’ meglio la mia famiglia che di soldi non ne aveva molti, siamo arrivati a Milano negli anni del boom, quando io ero bambino, dal messinese. Niccolò invece ha la pancia piena, ed è meglio così. Io fame continuo ad averne, mica passa se ci sei cresciuto assieme. Ho sempre voglia di arrivare, di provare: sennò secondo lei mi sarei messo ad aprire un altro negozio con la crisi che c’ è in giro? Mi è andata bene. E ora mi sento felice». Tic-toc e tic-tac, il tempo è galantuomo.