Il nome di battesimo sarebbe un altro (“sarei Giuseppe Antonio, ma siccome era un nome troppo lungo mi chiamavano Giussano, donde il diminutivo”) ma per tutti è ed è sempre stato Giussy Farina. Che sia vezzeggiativo o meno, resta però anche un nome che non evoca ricordi felici per i tifosi del Milan anche se qualche soddisfazione riuscì a prendersela. Le copertine e i riflettori, quelli, se li era già guadagnati da anni. Esattamente dal maggio del 1978. Era il presidente del Lanerossi Vicenza dove era appena esploso Paolo Rossi, per metà di proprietà della Juve che inizialmente non aveva creduto in lui. Sul tavolo del mercato calcistico si gioca la roulette delle buste per la comproprietà. Farina crede di avere le carte giuste da giocare… ”Due miliardi e sei. Sulla busta devi scrivere: due miliardi e sei – gli dice una fonte anonima –Giussy, fidati, la Juve mette due miliardi e mezzo. Tu metti due e sei e Paolo è tuo”. Giussy Farina non dormì, ci pensò, si fidò. E la mattina dopo sulla busta in ceralacca della Lega scrisse: 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire. Solo dopo – quando aprirono la busta della Juve – si scoprì che i bianconeri si erano fermati a 875 milioni. Ne nacque uno scandalo con le dimissioni del presidente federale Carraro ma ormai i giochi erano fatti. Anni dopo il Milan, era l’82. Farina prese il club rossonero da Colombo a pochi mesi dalla retrocessione in serie B (“Tutti a consigliarmi: compra il Milan, vedrai quante donne ti cadranno ai piedi. Mai conquistata una”).
Dopo la facile promozione dell’anno successivo (allenatore Castagner), la prima stagione di serie A non fu fortunatissima e andò molto meglio nella seconda con Liedholm in panchina ma il suo periodo rossonero si chiuse senza molta fortuna nell’86 quando la società fu presa in consegna da Silvio Berlusconi a un passo dal fallimento. Ma che tipo era Farina? Le sue passioni, oltre al calcio, erano (e sono) il fucile da caccia, i fiori, le galline e la collezione filatelica di annulli del Lombardo Veneto.
È dottore (in giurisprudenza), collezionista anche di società visto che oltre a Vicenza e Milan ha rilevato anche Padova, Modena, Livorno, Rovigo, Legnago, Valdagno, Schio e Audace San Michele. È al terzo matrimonio (nato da proprietari terrieri a Sorio di Gambellara, nel 1956 sposò la contessa Carla Rizzardi, veronese, dalla quale ebbe sei figli. Dopo un quarto di secolo divorziò e a Palafrugell, in Catalogna, si mise con Gabriella Casini, vedova, che gli diede Marisol. Dopo 17 anni lasciò la donna per sposare, sempre in Spagna, l’australiana Dunja Adcock, che aveva sei lustri meno di lui. Dopo otto anni mollò anche questa) e in viaggio di nozze è andato in Sudafrica, dove possiede una tenuta di mille ettari che si estende per cinque chilometri lungo l’Oceano Indiano, a Port Elizabeth. È lì che riparò per 17 mesi, inseguito dalla giustizia, dopo aver ceduto nel 1986 a Silvio Berlusconi un Milan sull’orlo del fallimento.
“Sapevo di non poter rimanere presidente a vita. Mi sembrava normale che il Milan non restasse a un vicentino, era giusto che lo prendesse un imprenditore milanese. Prima di partire sono andato a trovare Berlusconi ad Arcore. Prendilo tu, gli ho detto. Ti invidio quella bella testa di capelli neri che hai, gli ho lasciato il Milan con tutti i giocatori: Baresi, Costacurta, Tassotti, Albertini, Maldini… Gente che ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Le pare poco? Fui arrestato per un reato, il falso in bilancio, che oggi non esiste nemmeno più. Mia sorella mi disse: ‘Se non fai tre giorni di galera, in Italia non sei nessuno’. Così rientrai dal Sudafrica e mi presentai alla frontiera di Chiasso”.
Nel 2006 tentò di costituire una cordata per rilevare il Verona, iniziativa che però non ebbe seguito dopo che la società scaligera trovò un acquirente. Adesso, dopo una vita passata a inseguire chimere sui campi di gioco, si gode l’utima moglie molto più giovane di lui e vaga tra il Museo del giocattolo, la Casa dei sogni istituita dalla Fondazione Gaspari Avrese Onlus sulle Torricelle e l’esclusiva zona collinare che domina Verona. Ricordando i tempi doro di Paolorossi. Tutto attaccato, s’intende.