È possibile vedere sul web Terre Rouge, il docufilm tratto libro di Tonio Attino Il pallone e la miniera. Storie di calcio e di emigranti. Il docufilm, regista Luigi Mezzacappa, non è nato con finalità commerciali, semmai per rendere omaggio a Esch-sur-Alzette. È la città del Lussemburgo che accolse migliaia di italiani già dai primi anni del Novecento. Terre Rouge, la cui realizzazione è stata ultimata nel 2016, racconta la storia dell’emigrazione italiana nel bacino minerario centroeuropeo e le imprese della Jeunesse, la squadra dei calciatori-operai che riuscì a tenere testa al Liverpool di Keegan e al Real Madrid di Alfredo Di Stéfano.
È una storia di disperazione e gioie, di sofferenze e di orgoglio, di guerra e di integrazione, di sport e di lavoro. Protagonisti gli italiani che fecero le valigie per mettere radici in un altro pezzo di mondo, attraversando due conflitti mondiali e combattendo il nazifascismo, le discriminazioni, l’emarginazione. Se vi interessa scoprire come è nato il docufilm e perché, ve lo racconta nel suo articolo di seguito il regista Luigi Mezzacappa.
Sono più di trent’anni che Tonio e io ci conosciamo. Grande feeling, si direbbe oggi. Bell’amicizia. Terroni entrambi. Lui più di me perché nato e cresciuto a Taranto; io meno di lui perché, famiglia di origini molisane, sono nato a Torino, e mi sono quindi “redento”. Stesso umorismo, stesso gusto per battute e sfottò ironici e leggeri come macigni, a metà tra la carezza e la provocazione.
È il 1987 quando Tonio viene a Torino per uno stage. Ci incontriamo sul lavoro, al quotidiano La Stampa, dov’ero responsabile dei sistemi di produzione. In cinque minuti è sintonia totale. Diventiamo amici anche se, a dire il vero, non è che da allora ci incontriamo così spesso: abitiamo e viviamo lontani, non è facilissimo. Ma quando ci si vede è come se ci fossimo salutati la sera prima.
Ci si chiama due, tre, quattro volte all’anno. Ci si scrive cinque, sei, sette volte all’anno. Ma abbiamo conservato un rapporto fresco, quasi come se fossimo ancora i trentenni che eravamo quando ci conoscemmo: a suon di virtuali manate sulle spalle, di reciproche battutacce sulla reciproca scempiaggine e cialtroneria. Con la scusa della distanza nello spazio e nel tempo, è venuta fuori questa cosa qui: un’amicizia strana e bella, proprio come due “vecchi adolescenti”.
Un giorno, verso la fine di agosto del 2015, Tonio mi telefona. Era un po’ che non ci sentivamo. Riconosco il suo numero sul mio cellulare e, in ossequio al nostro speciale protocollo, gli rispondo con il solito cordialissimo: “Che cazzo vuoi?”. Lui, rispettando il medesimo protocollo, risponde mostrando la sua solita, altissima considerazione nei miei confronti, e attribuendo alle mie parole un peso uguale a zero, senza preamboli, né ‘ciao’ né ‘crepa’, mi chiede: “Ci vieni in Lussemburgo con me?”. Per dimostrare il mio alto livello di coinvolgimento, mantengo il registro: “A fare che?”. “A girare un film”, dice lui. Sì, perché qualche mese prima gli avevo raccontato della mia bizzarra curiosità – appena sbocciata – per la macchina da presa e il montaggio cinematografico, più o meno come un bambino avrebbe raccontato di aver scoperto il Pongo e che con quello si possono fare babacci. Lui, stranamente, doveva avermi preso sul serio.
Normale, quindi, la mia contro-risposta: “E niente, ti sei di nuovo bevuto il cervello. Mi hai preso per un regista?”. E lui, carino, delicato e gentile come sempre: “No, non ti ho preso per un regista, ma per il cazzone che sei, altrimenti non ti avrei chiamato”. Tutto d’un fiato, mi spiega di aver forse trovato una storia molto simile a quella che aveva raccontato due anni prima in un suo libro, sulla generazione cresciuta con l’Italsider sullo sfondo della propria vita, cioè l’Ilva, diventata da poco ArcelorMittal. Io quel libro lo conoscevo, mi era piaciuto tanto tanto. Mi dice: “Pensa che il libro è arrivato fino in Lussemburgo, non perché sia bello (e io: “Lo so, lo so”), ma solo perché il Lussemburgo è molto sensibile alle storie di ferro” (e io: “Certo, per quale motivo sennò?”).
Mi racconta che subito dopo la pubblicazione di Generazione Ilva (questo il titolo di quel libro) di due anni prima, era stato chiamato ad Esch-sur-Alzette per presentarlo. Mi racconta di Remo Ceccarelli, una forza della natura, cinquantadue anni, nato a Esch da madre nata in Lussemburgo da famiglia romagnola e papà emigrato nel ’50. Remo ha studiato Lingue e ne conosce cinque, sei, più il romagnolo, di cui sfoggia orgogliosamente l’accento. Remo si ostina a considerare la Romagna la sua terra, anche se non ci è nato. Strano soggetto, penso io, soprattutto se confrontato con tanti italiani, nati e cresciuti qui, che oggi si vergognano di essere italiani. Remo è adorabile, continua Tonio, Remo sprizza umanità da tutti i pori, Remo ha un vulcano dentro, Remo ha giocato nella Jeunesse, la squadra con la casacca bianconera in cui hanno giocato gli operai italiani, quella che ha vinto ventotto scudetti.
La Jeunesse non va confusa con l’altra squadra della stessa cittadina, quella dei figli di papà che con la Jeunesse non ha mai vinto, quella che non puoi neanche nominare perché i tifosi della Jeunesse che ti sentono pretendono poi un pegno di 5 euro. La Jeunesse, invece, è la squadra che ha giocato contro il Real Madrid – e pensa un po’ cosa poteva significare per quegli Italiani – anche contro il Milan di Trapattoni e la Juve di Platini. Remo ha un tormento: vuole chiudere il cerchio che i suoi nonni aprirono un secolo fa, vuole tornare in Italia. Remo, Remo, Remo… Che fai, ci vieni o no?. Tre secondi. Tre secondi di silenzio. Ho impiegato tre secondi per rispondere: “Quando partiamo?”. Per una volta, senza ironia.
Due telecamere avrebbero lavorato meglio di una, così ho chiesto a mio figlio di accompagnarci. Un mese dopo, eravamo tutti su un aereo, destinazione Esch: io e Luca, mio figlio, da Torino; Tonio, da Taranto. È stata una bella esperienza, sotto tutti gli aspetti, compreso lavorare insieme a mio figlio. Il film che ne è venuto fuori si chiama Terre Rouge. È la storia di una generazione di emigranti italiani, di vite spese nelle gallerie delle miniere di ferro o al crogiolo di un altoforno, di sudore e fatica, di giovani famiglie che fuggivano da un incubo per inseguire un sogno. Una storia che ne incrocia un’altra, di un improbabile riscatto, “unica vittoria possibile per chi era abituato a vincere poco”, come dice Remo che nel film tiene le fila del racconto.
A quei tempi, i giocatori della Jeunesse erano per metà italiani, di prima o seconda generazione, tutti operai o minatori. E vincevano, vincevano, vincevano. In Coppa dei Campioni, alla quale all’epoca accedevano anche le piccolissime squadre, la Jeunesse pareggiò con il Liverpool. Soddisfazioni effimere, ma che importa? La vera soddisfazione, per Esch-sur-Alzette, per i tifosi, per i non tifosi e per gli italiani era riconoscersi in una identità, in un’appartenenza e nella solidarietà. Per quel tipo di gente che si emoziona per quel tipo di vittorie, vincere è abbracciarsi tutti insieme. Di una vita di successi non avrebbero saputo che farsene, come racconta Guy Allamano, che rifiutò un contratto di 300mila franchi all’anno per continuare a giocare nella Jeunesse che gli dava 30 franchi a partita, ma solo quando vinceva. Come racconta René Hoffman che, dopo il suo esordio al Santiago Bernabeu, diciassettenne, rifiutò un provino al Real Madrid perché un lavoro già ce l’aveva.
È successo che ho conosciuto una bella storia e tante meravigliose persone, a Esch e poi a Gualdo Tadino, il paese in provincia di Perugia che negli anni ’50 fu tra i maggiori “emissari” dell’emigrazione verso il Lussemburgo. Una storia dai mille risvolti, drammatici eppure per certi versi entusiasmanti, di proporzioni insospettabili, popolata di personaggi incredibili e spesso coraggiosi, come racconta Maria Luisa Caldognetto, docente all’Università di Treviri. È successo che mi sono perfino riavvicinato al calcio, che da tempo ormai disprezzavo per tutto ciò che gli gira intorno, perché dalla Jeunesse in avanti i campioni sportivi e i campioni di umanità non si sono quasi mai ritrovati a battere in uno stesso, unico cuore. Ma oggi, dopo aver conosciuto la storia della Jeunesse, mi piace immaginare che possa accadere ancora, di nuovo. La Jeunesse e i suoi calciatori-operai-minatori mi hanno restituito il gusto per il gesto atletico e riacceso la voglia di cercarci dentro la poesia che mi piacerebbe trovare in ogni cosa. Lo so, sono consapevole che il calcio non è più quello, ma penso anche che cancellarne il ricordo sarebbe un crimine. Lo sa sicuramente anche Jean-Pierre Barboni, il fuoriclasse di una generazione di calciatori, poi allenatore e presidente del club: “Non è più così, la Jeunesse era un’altra cosa, oggi si confonde con le altre squadre”.
Denis Scuto, ex centrocampista e oggi professore di Storia Contemporanea all’Università di Esch, come Jean-Pierre sa bene quale sia la condizione di emigrante in terra straniera, perché entrambi l’hanno vissuta sulla propria pelle: “Ti accolgono perché servi, finché c’è lavoro. Ai padroni delle fabbriche faceva comodo tutta quella gente. Il dolore, lo strazio dei nostri genitori per aver abbandonato la terra e gli affetti non era un loro problema”. In quanto al film, credo sia giusto avvertire lo spettatore: anch’io, come regista, sono un po’ come quegli “scarponi” della Jeunesse che di giorno lavoravano in miniera o in acciaieria e la sera giocavano contro il Real Madrid o pareggiavano con il Liverpool.
Se mi fossi messo a giocare con cemento e mattoni avrei potuto costruire solo casette per i tre porcellini, ma ho scelto di giocare con la videocamera e il ciak, e il risultato è quello che vedrete. Spero solo di non aver rovinato la storia, perché quella è bella. Accidenti se è bella.