Caro Enzo, mi sono allontanato da tutto e da tutti, ho lasciato fuori, nelle avenidas madrilene infuocate, la gioia dei nostri connazionali, mi sono nascosto nel silenzio per indirizzarti queste poche righe che vogliono essere innanzitutto il mio grazie di cuore per la stupenda avventura che mi hai fatto vivere e insieme il seguito di tante parole, di tanti pensieri che ci siamo scambiati in altri tempi quando — dopo una breve intensa battaglia — diventammo amici. Vedi Enzo, ci tengo a questo ricordo, a sottolineare quei giorni del ’76 in cui militavamo su sponde sportive diverse; ci tengo a rammentare quella notte di Budapest, prima del «Mundial» d’Argentina, in cui ci incontrammo da uomini, non da addetti ai lavori, e da uomini riuscimmo a spiegarci, a capirci eppoi a volerci bene.
Ci tengo a sottolineare quel «prima» perché odio poter essere creduto — magari solo per ignoranza o per banale associazione di fatti e persone — uno di quelli del «dopo». Ho il cuore gonfio di emozione, Enzo, perché in oltre vent’anni di professione una gioia così grande non l’avevo mai vissuta se non nei giorni dell’ira bolognese, nel lontano Sessantaquattro.
Ma cos’è l’amore per una città, per una squadra confrontato con quello che si può nutrire per l’Italia e per la sua Nazionale? Con te, quasi portato per mano dalla fede incrollabile che ti muoveva, ho messo piede nella Storia dello sport più bello; ho avuto momenti di abbandono, ma sempre mi bastava sentire la tua voce pacata, ascoltare le tue sempre più che logiche spiegazioni per ridare vigore alle mie convinzioni.
Sai, caro Enzo, che del calcio mi interessano più gli aspetti umani che non le vicende tecniche: è un mio limite, ma stavolta è stata la mia fortuna, perché non ho più avuto dubbi sulla capacità vincente della tua truppa felice dal momento in cui ho capito che stavi per portare in Spagna non solo dei calciatori, ma degli uomini, ai quali avevi innanzitutto insegnato a comportarsi onestamente, a volersi bene, a non dividersi in clan ma anzi a far muro — tutti insieme — contro tutti: gli avversari del campo e quelli di ogni giorno, i nemici leali e quelli infidi che andavano man mano stringendo d’assedio il Club Italia.
Ho sofferto con te, Enzo, e come te mi sono ribellato, quando tanti cialtroni han preso a coprirti d’insulti che nulla avevano a che vedere con la tua funzione di tecnico ma arrivavano dritti all’uomo, con una perfidia di cui oggi tanti dovrebbero vergognarsi. E invece, ora che vorrei dar libero sfogo all’iperbole, all’elogio sperticato, a tutte le parole più grandi e più belle destinate a rallegrare un amico e un’amicizia, sento dentro di me una rabbia sorda per le nuove offese che ti rivolgono coloro che, dopo averti tacciato di incapacità, d’incompetenza, di perditempo (anche questo hanno detto, lo ricordi? che lavoravi troppo poco per quel che guadagnavi!), di debolezza, di doppiezza, di soggezione al Palazzo, addirittura di avere smarrito il senno, oggi — con facce di bronzo degne di essere esposte come i guerrieri di Riace — ti esaltano, ti stringono la mano, ti paragonano ai Grandi d’Italia, s’inginocchiano servili ai tuoi piedi forse già sapendo di arrecarti un’ulteriore offesa, ma proprio per questo pregustando l’occasione di una rivincita non lontana.
Tutto questo avviene, caro Enzo, con la complicità inconscia di una folla meravigliosa che appena ha potuto vedere coi propri occhi e ragionare con la propria testa ha ritrovato l’antico amore per la Nazionale; tutto questo avviene nascondendo le vergogne dietro quella gente e dietro montagne di giornali, dietro tirature record che sembrano voler spazzare via con rabbia, per non farsi cogliere in castagna, le poche copie finite nelle collezioni, negli archivi, a testimonianza perenne di una indecorosa campagna montata contro di te fino al linciaggio. Più di un amico mi ha chiesto, nella notte trionfale di Madrid, se finalmente avessi trovato un po’ di pace: certo, la vittoria dell’Italia ha sciolto dentro di me tanti nodi, ma l’ultimo — questo — lo voglio sciogliere con te e con i miei lettori. Non è rancore, è un servizio reso alla verità.
E adesso che mi sono sfogato, Enzo carissimo, cercherò di coinvolgerti in una iniziativa che non ha bisogno di interrogazioni al Parlamento, di carte bollate, di consigli federali, di tribunali ordinari o sportivi: la gioia di vincere, anzi di stravincere, l’abbiamo goduta sino in fondo; con la conquista del terzo titolo mondiale tu e i tuoi stupendi ragazzi — vicino ai quali oggi mi sento come un fratello maggiore che li guarda ammirato e desidererebbe solo accarezzarli, uno a uno, e dirgli grazie — avete procurato al calcio italiano una insolita stagione di gloria e di felicità che può diventare anche una necessaria occasione di perdono: io spero che Federico Sordillo, così mutato negli ultimi tempi, direi sconvolto dalla gioia che gli avete procurato, colga al volo l’occasione per perdonare quei giocatori che hanno sbagliato e che, pentiti, chiedono di tornare nella grande famiglia del calcio; per parte mia — e con la tua approvazione — chiedo un’amnistia per tutti i giornalisti pentiti, celebri o scribacchini, feroci o punzecchianti, divertenti o insopportabili, letterati o analfabeti, modesti o vanagloriosi; chiedo che siano perdonati tutti quei criticonzi che, pur cercando di celarsi nei fiumi della retorica d’occasione o nelle celebrazioni di un successo che hanno subito, hanno già pagato nel momento in cui i loro lettori li hanno colti in flagrante mendacio o in ritirata, dopo la più clamorosa Caporetto della stampa sportiva italiana.
Solo così, con un ritorno alla serenità totale, con il rilancio di una opportunità di critica seria e competente, la Nazionale di Spagna avrà giovato totalmente al recupero del calcio italiano. So che mi capisci, caro Enzo, so che anche tu sei stanco di amarezze, di rabbia, di rivincite: dentro di te manterrai le tue convinzioni di uomo; fuori, per il pubblico, per i critici, potrai tornare il «vecio» di sempre, quello che accompagnava con un sorriso la più semplice o la più complicata delle spiegazioni, e che sempre sorridendo, ha cementato gli umori diversi, le diverse qualità di ventidue ragazzi che non formano più soltanto un Club ma la Famiglia Italia di papà Bearzot.
Italo Cucci – “Guerin Sportivo” luglio 1982