Rai Sport ha appena trasmesso l’epica sfida Italia – Brasile valevole per la qualificazione alle semifinali del Mundial ’82, poi vinto dagli Azzurri.
La possibilità di rivedere quel Brasile è stata quindi ghiotta: Zico, Cerezo, Júnior, Falcão, Sócrates… tutti in campo contemporaneamente con la maglia verdeoro. Al di là della mai declinante ammirazione per la nazionale di Bearzot (che si impose 3-2 sovvertendo ogni pronostico della vigilia) l’occasione è servita per rimettere nuovamente a fuoco l’organizzazione tattica del Brasile.
Molto è stato scritto di quella partita, considerata da alcuni come la più bella nella storia della Coppa del Mondo. E molto di più si è cercato di inquadrare tatticamente il Brasile di Telê Santana.
Dal punto di vista dei principi di gioco, quella nazionale affidata all’ex tecnico del Palmeiras (e futuro di Flamengo e San Paolo) si ispirava certamente al gioco fluido ed estetico della nazionale che aveva vinto tre volte la Coppa Rimet fra il 1958 ed il 1970.
In pratica, Telê Santana cercò di riportare il Brasile a praticare quel futebol bailado che, sulla scia dei Mondiali tedeschi del 1974 (che esaltarono il gioco ma anche il pressing e la condizione atletica dell’Olanda di Rinus Michels e Cruyff), era stato abbandonato dalla Seleção affidata a Coutinho per la spedizione di Argentina ‘78.
Per sostituire l’ex professore di educazione fisica la Federazione brasiliana decise nel 1980 di affidarsi a Telê Santana. Fin dal Mundialito 1980 stampa e tifosi si accorsero che il nuovo allenatore della nazionale, dopo il fallito esperimento europeizzante del suo predecessore, aveva deciso di riportare il Brasile ad un approccio più vicino alla propria storia calcistica.
Così nacque la squadra che verrà poi sconfitta dall’Italia e da Pablito Rossi al Sarrià di Barcellona. Dal punto di vista tattico – analizza Michele Tossani – diversamente da quanto detto e scritto in passato, quel Brasile non era disposto in partenza secondo il classico sistema brasileiro 4-2-2-2 quanto piuttosto secondo una versione ante-litteram del moderno 4-2-3-1, che poteva poi diventare 4-3-2-1 in fase di possesso.
In difesa, davanti al portiere Valdir Peres, la coppia di centrali da Oscar e Luizinho. In fase di costruzione il loro compito era essenzialmente quello di avviare la fase di possesso, favorendo subito linee di passaggio verso la metà campo. Qui c’era il cuore pensante di quella squadra, costituito da una coppia di interni formata da Falcão e Toninho Cerezo, accanto ai quali lavorano Zico e Sócrates (quest’ultimo, contro l’Urss di Valeri Lobanovski, nel girone eliminatorio, venne arretrato al fianco del futuro re di Roma).
Il Pelè bianco, votato miglior giocatore sudamericano nel 1981 e nel 1982, agiva da rifinitore in posizione centrale, alle spalle del centravanti Serginho (non a caso Bearzot decise di affidarne la marcatura a Claudio Gentile, un difensore, invece che ad un centrocampista). Sócrates invece partiva prevalentemente sul centro-destra, per andare poi ad occupare posizioni anche sul lato opposto del campo. A sinistra giocava Éder.
Sia il giocatore del Corinthians che Éder giocavano per lo più all’interno del campo, consentendo così al Brasile di occupare i corridoi centrali con tutto il talento del quale disponeva la linea mediana di Telê Santana. L’ampiezza era garantita ai verdeoro dalle avanzate dei due esterni bassi Leandro e Júnior, dotati di tecnica da centrocampisti (non a caso Leovegildo Lins da Gama verrà impiegato a metà campo nel Torino di Radice) e costantemente proiettati in avanti. Entrambi i terzini potevano scambiarsi di posizione con i centrocampisti più esterni, andando ad occupare più centrali, da mezzali.
Da n.9, come detto, agiva Serginho, accusato poi da molti (insieme a Valdir Peres) per la fallita conquista della Coppa del Mondo ‘82 che tutti in Brasile davano per già vinta. In realtà, come ricordato da Rob Smyth del Guardian, la scelta di Serginho (favorita anche dalle problematiche fisiche che avevano escluso punte di maggior talento come Careca o Reinaldo), garantiva a Telê Santana di avere a disposizione un centravanti in grado di battagliare alla pari con le fisiche difese europee oltre a ad aprire (con il suo movimento lungo) spazi per gli inserimenti da dietro dei centrocampisti.
Proprio il tourbillon di questi ultimi, che in pratica erano tutti pronti ad occupare i corridoi centrali nelle zone di rifinitura e finalizzazione, permetteva al Brasile di essere imprevedibile in fase offensiva, soprattutto in un’era di marcature individualizzate. Il costante movimento offensivo dei suoi avanti consentiva infatti alla squadra brasiliana di destabilizzare il sistema difensivo degli avversari.
L’intera fase di possesso verteva sull’idea di garantire appoggi al portatore di palla e di favorire le giocate a tre e a due (triangolazioni, ricerca del terzo uomo, dai e vai, sovrapposizioni…), nelle quali i tecnicamente dotati giocatori brasiliani eccellevano.
Anche in fase difensiva il Brasile era organizzato, più di quanto di pensi. In non possesso infatti tutti i giocatori cercavano di rientrare dietro la linea della palla, dando vita ad una sorta di 4-4-2/4-5-1 che dipendeva dal posizionamento difensivamente più o meno avanzato di Zico.
L’azione di disturbo della manovra avversaria avveniva più attraverso una pressione individuale nei confronti del giocatore in possesso di palla che mediante un pressing di tipo olandese. In pratica, veniva privilegiata l’idea di coprire gli spazi più che quella della riconquista immediata.
Una squadra che, nonostante la delusione del Mondiale spagnolo, è rimasta nell’immaginario collettivo, soprattutto per la generazione nata negli anni Settanta. Una compagine che praticava un calcio moderno, specialmente se si pensa che quel tipo di approccio offensivo, a distanza di quarant’anni, è ora (con le differenze del caso) riproposto da molti allenatori.