Angelo Carbone, secondo dei quattro figli di Lorenzo, operaio dell’Anas in pensione, e di Maria, casalinga e protettrice dei bambini col pallone in testa (e fra i piedi). Ruolo attaccante all’oratorio del Redentore di Bari, ruolo «scapocchione» a scuola. «Scapocchione»? «Quello che non studia tanto e cerca di sfangarla col minimo sforzo».
Come centrocampista ha vinto uno scudetto, una Coppa dei Campioni (Milan 1993-’94) e un’intercontinentale (1990), come «scapocchione» si è messo nel cassetto un diploma da ragioniere. Niente male, malgrado gli inizi difficili. «Mio padre tifava Inter: per aver superato l’esame di quinta elementare, ricevetti in dono un completo nerazzurro. Però non voleva che facessi il calciatore. Voleva che lavorassi. Quando veniva l’estate andavo con dei parenti a vendere vestiti su una bancarella in giro per i mercati. Guadagnavo 30 mila lire la settimana. Mio padre non sapeva che andavo al campo. Mia madre mi copriva. Ero già tesserato al Bari, e lui è andato a parlare con un dirigente della società per chiedergli di mandarmi via».
Lo «scapocchione» sale di livello, dal Redentore alla società «Carella» e poi al club dei Matarrese dove arriva come il ballerino Leroy Johnson di «Saranno famosi» (quello vero, il telefilm): andò per accompagnare un amico a un provino ma alla fine presero lui.
«Mio padre non veniva alle partite, apposta. Per me è stata una sfida. Prima ho esordito in serie B. Mi ricordo che era un periodo iellato. Si facevano male tutti. Durante una partita Salvemini si voltò verso la panchina con la faccia di chi pensa “e adesso chi faccio entrare? ’’. Toccò a me. Poi ho messo i piedi in serie A. Esordio a Torino il 24 settembre ’89, contro la Juve. Marcai Zavarov. Quell’anno sono stato dietro a gente tosta, come Matthäus. Ma non avevo paura».
Angelo sfonda. Certo, non protagonista, ma comunque comprimario di lusso. Fama e soldi. «Adesso si guadagna in maniera esagerata, ai miei tempi un giocatore di serie A doveva amministrare intelligentemente i suoi guadagni, per il “dopo”. Spese folli? Per me è folle quello che non ti puoi permettere e ti vai a comprare. Io mi sono fatto la Porsche. Potevo permettermela».
Arriva al Milan, prima con Sacchi e poi con Capello. Berlusconi a pranzo ogni sabato. «Sacchi era un professore. Capello uno psicologo. Il primo preparava le partite pensando solo alla propria squadra, il secondo anche agli avversari. Berlusconi? Un presidente indimenticabile. Veniva a Milanello, scherzava, raccontava barzellette. Pareva uno di noi».
Dal Milan, Angelo va e viene: con Sacchi gioca in Coppa dei Campioni e segna un gol leggendario a Bruges (1991). Con Capello, 1993-’94, giocherebbe di più, ma si fa male. «Un infortunio assurdo. Ma che la dice tutta su come prendevamo le cose. Stavamo giocando a calcio-tennis prima di un’allenamento. Per recuperare un pallone sono finito contro il bordo di cemento del campo: mi hanno dato 50 punti e mezza stagione è volata via». Era il Milan definito degli «Invincibili». «Invincibili erano serietà e desiderio di imporsi: non ho mai trovato altrove allenamenti fatti così seriamente».
Angelo ha terminato il giro d’Italia del centrocampo. Milano è casa sua e allora si è domiciliato calcisticamente dietro l’angolo. «Quanti sognano di arrivare in serie A? Milioni. Quanti arrivano? Poche centinaia. Come faccio a non essere contento? Il primo calcio, con questo mestiere, lo dai alla miseria. Certo, il guaio è che diventi ricco e famoso a un’età in cui non sei molto maturo. Chi fa i soldi a quarant’anni sta meglio, secondo me. L’altro problema arriva quando smetti: non è semplice ritrovare l’abitudine alla normalità. La fila alla posta non si scansa, i ristoranti non ti offrono la cena, gli amici spariscono. Sei uno qualsiasi. Bisogna avere testa. E bisogna avere la salute, che poi è la cosa più importante. No?». Già, la vita non è cosa che puoi «scapocchionare».
Fonte Storie di Calcio