«Un’emozione una paura che anche la paura più grande/ Può svanire se trovi la forza di difendere il tuo pensiero»
(Non è una canzone , Fabrizio Moro)
«Io sono nato tra i casermoni della bassa borghesia, sono figlio della spaventosa speculazione edilizia di Roma, mio padre è impiegato al Ministero della Marina, mia madre è casalinga, ho due sorelle. La strada mi ha insegnato più dei libri, quando posso continuo a frequentare Piazza Giovane Italia, il quartiere delle Vittorie». Questa è la storia di un calciatore “scomparso”, vittima della damnatio memoriae, per il suo pensiero, di un antieroe in un mondo, quello del calcio, spesso chiuso a riccio su se stesso, omertoso e anche vendicativo. Pienamente condivisibile il giudizio che emerge dall’articolo di “PensoLibero”. Di Maurizio Montesi rimangono, negli annali del calcio, poche presenze nell’Album Panini che, mai come in questo caso, da semplice svago adolescenziale, diventa memoria storica. Maurizio Montesi inizia a giocare a calcio nelle giovanili della Lazio, con le quale si laurea Campione d’Italia Primavera fino ad arrivare in prima squadra senza esordire. Giocare in quella Lazio non è facile, forse perché piena zeppa di giocatori dal carattere duro, tosto, cosa che ha permesso loro in appena tre anni di passare dalla serie B al titolo di Campione d’Italia. È la Lazio dei Wilson e Martini, dei Re Cecconi e dei Garlaschelli.
Non c’è più un leader come Giorgio Chinaglia, ci sono giovani virgulti come Giordano e Manfredonia. E Maurizio Montesi, in quell’ambiente, è una mosca bianca, la macchia di sporco sull’abito della domenica, l’eccezione alla regola, la pecora nera. Lui, il “compagno” Montesi, è quello che viene politicamente definita una “zecca” negli anni di piombo di Roma. E Maurizio, con quei capelli arruffati, i baffi e la barba incolta, il viso scuro su un fisico minuto, centrocampista di quantità più che di qualità dai polmoni d’acciaio, paradossalmente sembra più un terrorista che un pensatore di sinistra. Perché lui, Maurizio, è un uomo di estrema sinistra in una squadra con una evidente politicizzazione verso l’estrema destra.
Una squadra, a detta sua, «dove per far carriera bisognava essere di destra ed essere ciecamente obbedienti a Wilson che distribuiva premi, punizioni, onori e cariche interne a sua discrezione. Dalla Lazio mi mandarono via perché la pensavo a modo mio». E il disagio lui lo sente tutto, così da capire che quell’ambiente non è per lui, seppur vi è cresciuto. Così se ne va ad Avellino, prima in serie B e poi in serie A. Accetta il trasferimento lontano da casa purché non pretendano da lui che porti la divisa sociale, purché non gli rompano le scatole e non lo trattino da pecora nera com’è stato nella Lazio.
Non concede interviste pre partita il sabato nei ritiri, se non al giornale Lotta Continua, e utilizza il tempo libero per far propaganda con i suoi compagni di ultra sinistra. Rifiuta cene ufficiali e atteggiamenti da vip come gli autografi, meglio un atteggiamento da contestatore, come lo iniziano a chiamare, di quelli che aiutano i disoccupati o chi cerca di reinserirsi nella società dopo la galera. «Non perdere tempo, pensa alle scuole e agli ospedali. Non vedete come siete ridotti qui in Irpinia?» a chi gli chiede una foto o una firma su un taccuino. In campo, però, da tutto il fritto e contribuisce a portare l’ Avellino in A. Maurizio è un rivoluzionario che spesso si ritrova in fuorigioco nella vita, al di là della linea e degli schemi.
E, nonostante due buoni campionati con i Lupi irpini, deve fuggire dopo l’ennesima intervista a Lotta Continua dove definisce dirigenti, compagni di squadra e tifosi del club irpino: «completamente stronzi perché invece di pensare alle riforme importanti, alle case, agli ospedali, a fronteggiare la disoccupazione, vanno alla partita a fare i tifosi più o meno incompetenti o faziosi…». Non si ferma qui, li chiama collusi con la mafia, parla di scarafaggi presenti negli ospedali, insomma sciorina verità che non si possono narrare e che, nel migliore dei casi, come unica gratificazione ti fanno guadagnare qualche timido striscione sugli spalti del Partenio del tipo “Hasta Montesi, siempre!”. Apriti cielo, l’unica cosa da fare è tornare a Roma, da quella Lazio che stavolta sembra accoglierlo, nonostante la politicizzazione a destra, nonostante Wilson, nonostante Maurizio Montesi.
Perché forse Maurizio non è un’anima candida come fu più tardi definito uno come Damiano Tommasi, ma di certo è uno che ha un codice etico, difende il suo pensiero nella forma anche al di là della sostanza. È tra i pochi che non vuol giocare quel maledetto derby tra Lazio e Roma che poco prima aveva visto la morte del tifoso Vincenzo Paparelli, colpito in pieno petto da un razzo esploso dalla curva giallorossa. Vi viene costretto ma è un rospo troppo grande da tenere in gola. Così qualche giorno dopo si concede un intervista a Panorama dove denuncia i rapporti tra club e tifo estremo delle curve, i biglietti gratuiti e i viaggi pagati a fronte di minacce subite. Punta il dito contro i presidenti, rei di dirigersi verso un calcio fatto più di business che di passione. Insomma, “molti nemici, molti onori” sembra essere coniata per lui! E quindi non stupisce che il 6 gennaio 1980, la domenica che vede in campo Milan e Lazio, una delle partite più “chiacchierate” dello scandalo scommesse, lui decide di tirarsi fuori, di non scendere in campo, accusando un infortunio che ai più sembra una scusa.
Qualcuno forse vuol fargliela pagare, forse il capitano Pino Wilson, forse tutta la squadra, forse anche gli avversari. Fatto sta che il 24 febbraio un intervento del cagliaritano Bellini gli procura la frattura di tibia e perone. Casualità? Predestinazione? Intervento scientifico? Fatto sta che ora il “contestatore” è fuori gioco, fuori dalle palle. Così pensano, ma non conoscono Maurizio Montesi che stavolta concede le sue riflessioni a un giovanissimo giornalista, uno di quelli che negli anni futuri si farà apprezzare per le sue inchieste, sportive e non: Oliviero Beha.
Beha fa semplicemente quello che non fa nessuno dei suoi compagni di squadra alla Lazio: va a trovare il brutto anatroccolo, la polvere sull’abito, la “zecca” all’ospedale. E Maurizio, vuoi per riconoscenza, vuoi per solitudine, vuoi perché i rospi in gola proprio non riesce a digerirli, fa una cosa semplice:parla , parla , parla, di quello che nessuno vorrebbe ascoltare, di quello che tutti sanno ma tutti negano. Parla di partite truccate da dirigenti e calciatori, parla di scommesse, di un fiume di denaro che sporca la passione di milioni di italiani. Lo fa in modo fragoroso, un modo che non lascia adito a dubbi. Quell’intervista la replica dinanzi ai giudici dai quali è chiamato, scende nei dettagli della melma che permea, sotterranea, il mondo luccicante del calcio.
«La sera del 5-1-1980, all’hotel Jolly di Milano, ci eravamo già ritirati in camera. Il mio compagno Avagliano dormiva o comunque sonnecchiava, e io guardavo un film alla televisione, quando si affacciò alla porta della camera Wilson e mi fece cenno di uscire fuori. Si svolse un breve colloquio in corridoio; Wilson innanzitutto fece un discorso generico sulla difficoltà della partita dell’indomani, sull’arbitraggio che si prevedeva favorevole al Milan e poi propose, poiché la nostra sconfitta era probabile, che la si favorisse e parlò di un compenso in denaro che per me doveva essere intorno ai 6-7.000.000 di lire. lo rimasi sconvolto. Era la prima volta che mi veniva fatta una proposta del genere. Dissi che non ci stavo e me ne tornai in camera; Wilson da parte sua disse che non se ne faceva niente. La mattina dopo, da cenni, sguardi e mezze parole di Wilson ebbi la sensazione che la decisione di falsare l’incontro non era stata affatto revocata. E decisi allora di non giocare».
Le sue, e quelle di altri, dichiarazioni mandano società in serie B, Lazio e Milan, altre vengono penalizzate. Giocatori come Albertosi sono radiati, altri cancellati per due o più anni dagli almanacchi calcistici, come i suoi compagni di squadra Cacciatori, Zucchini,Wilson, Giordano e Manfredonia. Lui stesso si becca una squalifica di 4 mesi per omessa denuncia. Maurizio Montesi però non passa per un eroe, anzi lui è l’antieroe per eccellenza. Così, pur ristabilito dall’infortunio non trova più posto, se non per una decina di partite (dove fa a tempo però a d’infortunarsi nuovamente. Casualità? Fato? Premeditazione? Vallo a sapere) nella Lazio retrocessa, nonostante il fatto che uno della sua tempra in serie B farebbe comodo, eccome. Non bastasse questa specie di mobbing, deve girare armato perché subisce minacce in continuazione, persino allenarsi diventa un inferno poiché dalle tribune gli viene tirato addosso di tutto.
Alla scadenza del contratto con la Lazio non trova uno straccio di squadra che punti su di lui, meglio quindi lasciare un mondo che forse non è stato mai veramente il suo. Da contestatore è passato a traditore, spione e questo, in un mondo omertoso come il calcio, non si perdona. Maurizio scompare completamente dai radar, la sua damnatio memoriae è simile a quella che subì nella storia (fatti i dovuti distinguo) il faraone Akhenaton, riscoperto solo alla fine del XIX secolo. Forse l’ha cercata lui più che subirla. Forse ha capito la lezione che, se “il delitto non paga”, l’onestà morale e la coerenza sono ancora da meno. E forse tener la schiena diritta non sempre serve, tanto vale saltar la barricata. E così del calciatore scomparso, del grande accusatore, del contestatore, si sente riparlare solo agli inizi degli anni ’90, e non in maniera edificante.
Viene arrestato per un traffico di hashish e il 2 febbraio del 1994 viene condannato a quattro anni di reclusione per violazione della legge sugli stupefacenti, insieme al suo complice Giuseppe Biancucci, un tipetto dai trascorsi non tranquilli. Infatti il suo nome venne accostato durante gli anni di piombo alla colonna romana delle Brigate Rosse e già aveva conosciuto il carcere nel 1979 , per associazione sovversiva e banda armata.
Scontata la pena, Maurizio Montesi esce dal carcere e di lui si perde nuovamente ogni traccia. Probabilmente ha lasciato l’Italia, chi dice che sia in Francia, chi dice che sia in Asia. Di certo è uno che il 26 luglio, il giorno del suo compleanno, non riceve tanti auguri dai suoi ex colleghi o tifosi e men che mai troverà un archeologo calcistico capace di riportarlo alla luce. Certe verità, certi personaggi, se scomodi, meglio che rimangano sepolti.