Il caldo era soffocante. L’aria di Città del Messico, satura di gas e di umidità, quel pomeriggio di agosto era quasi irrespirabile. La gente se ne stava tappata in casa, stesa sul divano con un ventilatore puntato addosso o accasciata al tavolo della cucina a sventolarsi con i fogli dei giornali. Tutti tranne Manuel e i suoi amici. Non che lui avesse voglia di andare in giro con quell’afa, sia chiaro; ma quando aveva raccontato a Carlos e Rafael del Vasco, loro non ci avevano creduto. Subito dopo erano corsi da Francisco, Ramón e Pedro, poi lo avevano detto ai loro cugini Jesús e Roberto, e infine pure a Diego e all’altro Francisco, quello che stava vicino al macellaio. E tutti insieme avevano preso in giro Manuel, dandogli del bugiardo e sfidandolo a dimostrare che la sua storia fosse vera. Lui non voleva passare da bugiardo, nossignore. Perciò non aveva aspettato neppure un minuto e aveva organizzato un’improvvisata spedizione dal Vasco, nonostante a quell’ora fosse meglio restarsene fermi e all’ombra. La casa era in un quartiere residenziale distante più di mezz’ora dal loro, ma agli altri aveva detto che ne valeva la pena.
“Racconta com’è andata, Manuel” disse Diego, che era stato chiamato per ultimo e non aveva capito granché.
“Ancora? Ma se ve l’ho già spiegato cento volte…”.
“Hai paura di fare confusione, mentiroso?”, chiese Rafael in tono di sfida.
Manuel grugnì, guardando gli altri in cagnesco. “E va bene, stupidi. Sono andato a casa sua ieri, con mio padre. Aveva un tubo rotto o che ne so. Papà mi ha detto di stare fermo mentre lavorava, ma mi annoiavo e sono andato un po’ in giro. Non c’era niente di speciale all’inizio, poi ho aperto una porta e ho visto un sacco di robe che luccicavano in fondo alla stanza. Sono andato a vedere: erano coppe, medaglie, foto di giocatori di calcio. C’erano anche un paio di scarpe e un pallone”.
“E poi?” chiese Pedro, il più curioso, l’unico a schierarsi apertamente con Manuel.
“Poi, mentre stavo guardando, si è aperta la porta ed è entrato un gigante!”.
“Pum!” fece Francisco I, mettendosi le mani intorno alla bocca per fare più rumore.
“Era un gigante, vi dico!”.
“E tu cos’hai fatto?”. Jesús, a dispetto del nome, era il più scettico.
“Niente… Ero in fondo alla stanza, e l’unica porta era quella da dove era entrato lui. Mi ha sorriso e mi ha detto che mio padre mi cercava”.
“Tutto qua?” Ramón sputò per terra. “Che storia scema”.
“Tu sei scemo. Non hai capito? Il gigante è un calciatore, me l’ha detto papà. Lui lo chiama El Vasco e dice che era molto forte, ai suoi tempi”.
“E quand’è che giocava, questo Vasco?”
“Ora andiamo a chiederglielo, va bene?”
“Secondo me neanche esiste” concluse Jesús, prima di prendere a calci una lattina buttata per strada.
Il cancello era aperto. Sulla targa di ottone era incisa una scritta lunghissima.
“Belaustegigoitia J.M., Abogado”, lesse Carlos, inciampando due volte sul cognome.
Entrarono quasi in punta di piedi. Sotto una veranda un uomo stava leggendo, seduto su un divanetto di vimini. I ragazzi rimasero a fissarlo a qualche metro di distanza, finché lui, senza alzare gli occhi dal libro, disse solo “Sì?”.
Qualcuno spinse Manuel, che si trovò suo malgrado davanti agli altri. Mentre iniziava a parlare, sentì Francisco II dire che quell’uomo non era poi così grosso.
“Buongiorno, signore. Non so se si ricorda, ma ieri sono stato qui, con mio padre, l’idraulico. Ho… ho visto quella stanza delle coppe, signore, e mi chiedevo… cioè, io e i miei amici volevamo sapere…”
“Se sono stato un calciatore, in gioventù. È così?” El Vasco posò il libro e sorrise. Si alzò senza aggiungere altro, e i ragazzi arretrarono d’istinto. Era davvero enorme: altissimo, ben piantato, torreggiava su di loro come una creatura delle fiabe. Aveva mani enormi e un collo taurino, ma i suoi occhi erano gentili e sul viso indugiava un’espressione bonaria, quasi paterna. Si avviò verso la porta di casa, ma i ragazzi non lo seguirono.
“Allora, volete vedere i miei trofei o no?” chiese prima di entrare.
Manuel fu il primo ad andargli dietro, con gli altri in fila indiana dopo di lui. Dentro, le tapparelle erano abbassate ovunque ed era molto buio, ma si ricordava benissimo dov’era la stanza e non ebbe difficoltà a ritrovarla. El Vasco era vicino alla teca in fondo alla saletta. Aveva aperto la finestra e fatto entrare un po’ di luce. Andò a sedersi in poltrona, facendo un cenno ai ragazzi mentre si accomodava.
“Aprite pure e guardate quello che volete” disse sorridendo.
Rafael non se lo fece ripetere due volte, e ben presto tutti furono intorno alla vetrinetta piena di coppe, medaglie e ricordi di un lontano passato di gloria calcistica. Le domande dei ragazzi iniziarono a piovere tutte insieme: Pedro volle sapere di chi erano le scarpe, Roberto prese il pallone e chiese se era stato usato in una partita vera, i due Francisco sembravano voler sapere tutte le occasioni in cui erano state vinte le grandi coppe dello scaffale più alto.
“Dove giocavi, signore?” domandò Ramón sovrastando le voci degli altri.
“Chiamatemi Josè Mari” disse el Vasco. “Giocavo nell’Athletic Club, a Bilbao”.
“In Spagna?”.
Il gigante socchiuse gli occhi. “Nei Paesi Baschi, figliolo. Anche se molti pensano che sia in Spagna”.
“Guardate!” Diego spuntò fuori reggendo una grossa cornice. Dentro c’erano una medaglia d’argento e un vecchio ritaglio di giornale. “È una medaglia delle Olimpiadi!”.
Gli altri gli si accalcarono intorno, cercando di scorgere i 5 cerchi che, da qualche mese, stavano facendo sognare tutto il Messico. La loro città si era infatti candidata a ospitare i Giochi del 1968, e la decisione sarebbe stata presa di lì a poco.
“José Mari, sei stato alle Olimpiadi?”
L’uomo stava per rispondere, ma Manuel lo interruppe con un grido. “Leggete qua! La Furia spagnola, dice l’articolo. Sei tu?”
“Sono io”, annuì Belauste.
“Mio padre dice che sei venuto in Messico perché odi la Spagna… ma allora perché giocavi per lei?”, chiese con l’innocenza della giovinezza.
El Vasco sorrise ancora, ma non sembrava felice. La sua era una smorfia per metà amara e per l’altra ironica. “Prima di quel torneo, le Olimpiadi del 1920, la selezione spagnola non esisteva. Dovettero scegliere velocemente calciatori forti e allora chiamarono tutta gente del Nord, dove si giocava il futbol migliore. Eravamo quasi solo baschi, in realtà. Io, Pichichi, Sabino, Félix, Mariano, Txomin e tanti altri. Sì, c’era anche qualcun altro, come El Divino Zamora che era catalano, ma sembrava più una selezione del nostro Paese che una nazionale spagnola. Eravamo come una squadra di amici. Se venisse una persona che ti sta molto, molto antipatica, e ti proponesse di pagarti un viaggio all’estero per partecipare al torneo più importante del mondo con i tuoi amici, tu cosa risponderesti?”.
“Che voglio andarci”.
“E anche noi glielo dicemmo. Volevamo solo giocare a calcio”.
Per un po’ nessuno disse niente. Fu Manuel a rompere il silenzio. “Posso leggere l’articolo che ti chiama La Furia?”.
“Ragazzo mio, non fidarti mai di quello che scrivono i giornali, neanche di una cosa stupida come una partita di calcio. Se volete sapere cosa successe quel pomeriggio posso raccontarvelo io, non vi pare?”.
Un grido di esultanza si alzò nella stanzetta. I ragazzi rimisero a posto i trofei che avevano in mano e si sedettero davanti alla poltrona, in attesa.
“Giocavamo contro la Svezia, già. Sapete dov’è la Svezia? È nel Nord Europa, vicino agli orsi polari e alle foche. Gli svedesi sono alti, pallidi e biondi e hanno facce tristi e allungate, più da donne che da uomini. Eppure, quegli svedesi ci picchiarono come fabbri, sì. Erano rozzi e violenti, mentre i miei compagni erano tecnici e provavano sempre a giocare il pallone. Loro usavano il fioretto, ma quel giorno serviva la sciabola: e la sciabola la portavo io. Perdevamo 1-0 ed eravamo già all’inizio del secondo tempo. Dovevamo vincere per non essere eliminati, quindi avevamo bisogno almeno di due gol per non tornare a casa. A un certo punto Sabino Bilbao, che era mio compagno nell’Athletic, batté un calcio di punizione dalla fascia. Io giocavo a centrocampo, più indietro, ma quando perdevamo andavo in attacco per colpire di testa. Lo facevo sempre nell’Athletic, e lui lo sapeva. Mi vide partire e mi seguì con gli occhi, io lo guardai e capii cosa stava per fare. Ma lo gridai lo stesso: Sabino, aurrera!”.
D’improvviso, il gigante si alzò dalla poltrona con l’agilità di un ventenne, fissando un punto indistinto sopra le teste dei ragazzi. Manuel ebbe la sensazione che el Vasco non vedesse più i muri di quella casa di Città del Messico, ma il suo compagno Sabino in piedi vicino alla linea laterale, pronto a passargli il pallone decisivo. Anche Manuel si sentì strano. Intorno a lui c’erano solo Pedro, Francisco e gli altri, ma gli sembrò di sentire qualcosa, come il rumoreggiare di una folla che percepisce l’arrivo del gol.
Belauste alzò il braccio destro. “Aurrera, Sabino, aurrera!” ripetè, la voce tonante così diversa da quella gentile di poco prima. “Sabino crossò. Aveva un bel piede e la palla mi arrivò precisa davanti. Gli svedesi, carogne, mi si avvicinarono in due e cominciarono a colpirmi alla schiena per non farmi saltare. Allora decisi di fare in un altro modo. Feci cadere la palla e la misi giù col petto. Gli svedesi pensarono che volessi tirare e mi si buttarono addosso, ma io abbassai il capo, difesi il pallone con le spalle e le braccia e iniziai ad andare avanti, dritto verso la porta. Mi si attaccarono addosso! Provateci anche voi a fermarmi, se ci riuscite”.
Ramón, Carlos e Jesús gli si gettarono contro, tentando di placcarlo alle gambe, ma Belauste iniziò a camminare come se non li sentisse.
“Non mi fermarono… come potevano? Ormai ero lanciato. Ci provò anche il portiere, ma non riuscì neppure a farmi rallentare. Mi accorsi di aver segnato solo quando sentii il fischio dell’arbitro e le grida degli spettatori: ero entrato in porta col pallone e quattro svedesi attaccati alle gambe. Avevo pareggiato”.
I ragazzi lo lasciarono, così lui tornò a sedersi in poltrona. “Dopo qualche minuto Txomin Acedo segnò il 2-1, poi loro sbagliarono un penalti nel finale e noi vincemmo. Vincemmo anche contro l’Italia e i Paesi Bassi, con i gol di altri due baschi, Félix Sesúmaga e il mio amico Rafael Pichichi, e ci guadagnammo la medaglia. Il giorno dopo la partita con la Svezia, un giornalista olandese che aveva visto il mio gol scrisse quella cosa, la Furia spagnola, o furia roja… ma non aveva capito niente”.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Manuel chiese “Perché?”.
Belauste gli sorrise, stavolta pieno di soddisfazione. “Perché quella era la Furia Basca, figliolo. Nessuno spagnolo avrebbe mai avuto la garra e i coglioni per segnare quel gol”.
“José Mari!”. Una voce di donna, leggermente arrabbiata, fece voltare tutti verso la porta. “Non sono parole adatte a dei bambini”.
“Perdonami, mi querida” rispose il gigante alla moglie, diventando rosso in volto. “Me enfado sempre quando ripenso a quella vecchia partita”.
“E allora non pensarci… non hai più 20 anni”. Dolores scosse la testa, rassegnata. “Allora, ragazzi: chi vuole pane e marmellata per merenda?”.
Con grida e risate tutti si alzarono e la seguirono, la storia appena ascoltata che già diventava un ricordo.
Manuel, però, si alzò con lentezza. Andò alla vetrinetta, raddrizzò alcune coppe rimesse a posto alla rinfusa dai suoi amici e la chiuse con attenzione, lanciando un ultimo sguardo alla medaglia. Poi si avviò a piccoli passi verso la porta. “Quella parola… aurrera”, chiese senza voltarsi. “Cosa vuol dire?”
José Maria Belauste, il Leone di Anversa, gli strizzò l’occhio. “È lingua basca, figliolo. Vuol dire ‘avanti’, e noi la usavamo come grido di battaglia”.
Manuel sorrise. Prima di uscire venne chiamato dal Vasco, la cui voce ora si era fatta improvvisamente stanca. “Torna a trovarmi, se vuoi sentire qualche altra storia”.
Manuel non rispose subito. Lo guardò per un attimo, osservandone con curiosità la grande testa calva che in campo era sempre stata coperta da un fazzoletto bianco. “Aurrera!”, gridò alzando il pugno al cielo, prima di scappare via verso la cucina.
José María Belaustegigoitia Landaluce, detto Belauste (Bilbao, 3 settembre 1889 – Città del Messico, 4 settembre 1964), è stato con Pichichi il simbolo dell’Athletic Club dei primi decenni del 1900. Centrocampista centrale dal grandissimo fisico (1 metro e 93 centimetri di altezza per 95 kg di peso), con la sua potenza era pressoché inarrestabile per gli avversari; quando la squadra perdeva era solito spostarsi in attacco per sfruttare il suo eccezionale colpo di testa. Giocò nell’Athletic per 20 anni, dal 1905 al 1925, vincendo 6 Coppe del Re e 7 campionati regionali (all’epoca la Liga non esisteva). Partecipò inoltre ai Giochi Olimpici di Anversa del 1920, dove la neonata selezione spagnola si aggiudicò un clamoroso argento.
Nonostante in campo avesse la fama del giocatore rude, nella vita privata fu una persona di grande cultura. Laureato in giurisprudenza, esercitò come avvocato anche durante la carriera di calciatore, giacché non divenne mai professionista. Fu inoltre un attivista del nazionalismo basco, militando nelle fila del PNV e dell’ANV; dopo l’ascesa al potere di Franco riparò in Messico, dove morì a 75 anni per un cancro ai polmoni. Per ironia della sorte, si deve dunque a un fervente “abertzale” (indipendentista, in euskara) l’origine del soprannome della nazionale spagnola.
Fonte: Minuto Settantotto