«Voi siete spaventatori professionisti»
Luciano Spalletti
L’ultima volta che il Napoli-calcio ha vinto lo scudetto, Napoli-città era benestante, potremmo dire finanche potente, anche se non se ne rendeva conto. Stava tirando su il Centro Direzionale, progettato da Kenzō Tange, disegnato da Renzo Piano, Massimo Pica Ciamarra e Nicola Pagliara. Aveva perso da sei anni la ferocia artistica di Eduardo, ma aveva Pino Daniele che tornava al blues in una dimensione internazionale e Massimo Troisi premiato con il Leone alla Mostra di Venezia. Schierava, la città, tutta la propria classe politica al governo, il sesto guidato da Andreotti.
Giuseppe Galasso giocava da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli interventi nel Mezzogiorno. I segreti del Viminale erano in mano ad Antonio Gava, le manovre di Bilancio appartenevano a Paolo Cirino Pomicino, Francesco De Lorenzo gestiva la Sanità. Nei rimpasti successivi Rosa Russo Iervolino sarebbe arrivata al Lavoro, volendo si potrebbe aggiungere al quadro l’avellinese Gerardo Bianco all’Istruzione, al posto di Sergio Mattarella. L’Ilva andava verso l’ultima colata, la fabbrica spegneva l’area a caldo e si facevano grandi programmi per la riconversione dell’area di Bagnoli. Napoli era insomma una città con una voce.
Riuscì perfino a non collassare sotto la campagna di opinione partita dai canali Mediaset, poderosa, per la monetina lanciata a Bergamo sulla testa di Alemão. A Silvio Berlusconi che aveva la moviola su Italia 1, Corrado Ferlaino poteva rispondere sedendo in consiglio federale e con le amicizie fraterne di Biagio Agnes, direttore generale in Rai, e Candido Cannavò, direttore della Gazzetta.
Aveva messo prima Italo Allodi e poi Luciano Moggi alla contraerea. Spaventarsi? E di che cosa? Casomai Napoli di sé pensava il contrario, nella sua contrapposizione con ‘a parte ‘e coppa, la parte di sopra, il Settentrione. Pensava: sono loro ad aver paura di noi. Ecco perché gli arbitri fanno così, ecco perché fischiano l’inno di Diego, ecco perché fanno il coro a Carmando augurandogli il tumore, ecco perché l’oro dei Borbone, eccetera.
Ma era ancora una antitesi di folklore, declinata nel calcio con gli slogan boccacceschi su Giulietta, su Gullit e Van Basten, su l’amaro Ramaccioni, una antitesi mai diventata eversione politica, che fosse pacifica o violenta non è questo adesso il punto. Non è mai tirata aria da Paesi Baschi tra Posillipo e Mergellina. Non ce n’era bisogno. Napoli coltivava – allora e oggi – una diversità che avvertiva come culturale e si faceva bastare quella, con una oscillazione che in poche righe non si può spiegare tra rivendicazioni e complessi di superiorità. Si segnalano, nel caso, le ricostruzioni di Francesco Durante nei suoi due lavori più preziosi: I napoletani e Scuorno.
Luciano De Crescenzo sintetizzava il clima in un paraustiello: andate in trenta al ristorante (forse lui diceva pizzeria) e vedrete che chi racconta una barzelletta a un capo della tavolata, non riesce a far ridere il lato opposto, forse nemmeno a farsi sentire. La metafora perfetta dei 1.468 km di distanza tra Predoi e Porto Palo di Capo Passero. Fanno 18 ore in macchina (oggi) secondo Google Maps, otto in più di quelle che occorrono per andare da Bilbao a Gibilterra oppure da Dunkerque a Marsiglia. Non esiste un altro posto in Europa occidentale dove si è così distanti restando una cosa sola, sotto la stessa bandiera, lo stesso inno, la stessa lingua.
Fonte: “Lo Slalom”