Non aveva le curve di Monica Bellucci in Malena, ma se Tornatore volesse dipingere un altro affresco della Sicilia, cioè la storia di un ragazzo del Sud cresciuto ad Alcamo e arrivato alla fama, la vita di Antonino Asta cadrebbe a fagiolo. Storia di emigranti del Duemila: un ragazzo con la valigia piena di sogni, catapultato nelle nebbie dell’ hinterland milanese, costretto ad abbandonare gli studi per portare a casa qualche soldo, garzone al bar di giorno, di sera in campo per allenarsi a diventare qualcuno.
E poi dribbling, assist, gol, avversari seminati come birilli, ma non in periferia: in serie A, a 30 anni, col cuore a pezzi per un contratto matrimoniale in fumo e un altro, che lo lega alla sua società , sempre in bilico. Asta, il capitano del Toro era questo: le peripezie della vita lo hanno reso impermeabile a qualsiasi avvenimento. Il primo ciak riporta lo spettatore all’ estate del ’90: Maradona in campo a Torino con l’ Argentina e, in contemporanea, con la stessa maglia biancoceleste, ma del Corbetta, un ragazzo di nome Asta calcia il rigore decisivo per la sua squadra, prima promozione di una carriera agli inizi.
“Niente paragoni con Maradona, Baggio o Conti, Claudio Sala o Sandro Mazzola, pietre miliari, maestri nel dribbling: sono solo Asta, con i miei piedi un po’ storti, raddrizzati nel tempo, ma mai come i loro”. È la sua carriera che è incredibile. In estate, dopo uno scambio sulla via Napoli-Torino, il suo destino era in una busta: se l’ era aggiudicata il Toro per soli 105 milioni. Un vero affare. “In tutta sincerità l’ affare l’ avevano già fatto anni prima. Giocavo nel Monza di Radice, vennero a vedermi l’ osservatore di allora, Accardi, e il ds Corni: ero in scadenza di contratto. Non mi feci pregare due volte, era l’ occasione di una vita; ai soldi ci pensai dopo”. Polmoni dribbling sono sempre state la armi vincenti di Asta.
“Quelli mi sono venuti fuori per caso, negli ultimi anni. Prima non credevo nei miei mezzi, avevo paura di sfigurare, di lasciare i compagni in mutande se avessi perso palla. Quanti chilometri ho percorso sulla riga laterale ? Centinaia. Ho sempre sperato che non mi beccasseroal doping. Scherzo… L’ allenamento duro è il miglior farmaco, con la voglia di sudare e imparare anche a 30 anni. Non sono cresciuto nelle giovanili di un club, sono arrivato tardi e perciò ho subito meno stress, ma ho perso sei anni di stipendio. Dall’ Interregionale alla A, ho fatto la gavetta, e ogni volta che mi affacciavo nella massima serie venivo ricacciato indietro: ha fiato e gambe ma non ha piedi, si diceva. Quando a 22 anni ho lasciato il bar per il calcio mi sono prefissato un solo obiettivo: giocare un match in A”. A otto anni è partito da Alcamo per il Nord. Poco dopo i suoi si sono separati, suo padre è tornato al Sud, mamma Vincenzina aveva bisogno di aiuto e lei ha iniziato ad aiutare al bar suo fratello maggiore. “A 14 anni la sera andavo a piedi al campo, a Corbetta. Sognavo di guadagnare tanto per comprare ciò che non avevo; se non avessi sfondato col calcio, avrei lavorato duro”. Si è sposato con una ragazza conosciuta a Milano e, dopo anni felici, la batosta…
Diceva un poeta che avere un paese, il tuo paese, vuol dire non essere soli. Ben diversamente è stato disposto per il ritorno in terra siciliana di Antonino Asta da Alcamo, ex barista e già capitano del Torino, che a trentadue anni vestì la maglia della Nazionale dopo una vita onesta e anonima da mediano. Il destino, del resto, sa essere prima dolce e dopo crudele. Proprio in Sicilia, a casa sua, dove il centrocampista coronò la lunga gavetta giocando a Catania l’ unica partita in azzurro il 13 febbraio 2002 (era Italia-Stati Uniti, finì 1-0, ma lui era già uscito nell’ intervallo sullo 0-0), la sua carriera rischia di interrompersi.
Il Palermo lo ha praticamente licenziato. Il brutto infortunio alla caviglia sinistra, ricordo del finale del campionato 2002-‘03 a Lecce, lo aveva costretto a un’ inattività dolorosa che aveva superato i sei mesi. Troppo per Zamparini, che perciò, norme alla mano, aveva annunciato la risoluzione del contratto. Triste, tristissimo, questo finale di partita. Come molto travagliata ma poi incredibilmente lieta, quando nemmeno lui se lo sarebbe aspettato, era stata la parabola pedatoria di Antonino, ragazzo emigrato a Milano da Alcamo con una valigia piena di sogni in forma di pallone. È una storia fatta di campi di calcio nebbiosi della periferia milanese, di allenamenti e di partite strappate, all’ inizio, al suo lavoro nei bar, a servire un espresso e una bibita. La linea d’ ombra che separa giovinezza e maturità l’ aveva superata da un pezzo quando, nel ’97, lo prese il vecchio Toro in B. Anche in granata, tuttavia, Asta era destinato a soffrire. Dopo un’ annata non eccelsa, stringendo i denti, disputò il campionato seguente alla grande, contribuendo fortemente a portare il Torino in A. Eppure, per quelle mattane del calcio che non hanno spiegazioni logiche, il giocatore venne dato al Napoli. Per ritornare al Toro e guadagnarsi addirittura la fascia di capitano.
Le sue tribolazioni avrebbero dovuto chiudersi lì. Invece, nonostante un’ altra annata straordinaria, con i granata salvi e l’ azzurro con il Trap, la sorte iniqua era di nuovo in agguato. S’ infortuna in un derby, perde il treno della Nazionale, nell’ estate del 2002 il Torino non gli rinnova il contratto. Va a Palermo, allora. La vita è ancora una “rosa fresca aulentissima”, come quella di Ciullo d’ Alcamo. Dura un anno. Cioè niente. Fino alla gara di Lecce, al licenziamento. Il destino, pur malinconico, lo ha ricondotto a Torino a occuparsi del settore giovanile dopo una parentesi in A come vice di Moreno Longo. E ricominciare un’ altra volta.
Fonti: “La Gazzetta dello Sport”, Francesco Bramardo, 2001; “La Repubblica”, Massimo Novelli, 2004