La morte di Ray Wilkins, nel 2018, per noi che lo abbiamo visto giocare, ci ha colto impreparati. Sapevamo delle sue non buone condizioni di salute: tuttavia, mai avremmo pensato a una fine così tragica, e repentina.
Il giocatore inglese era arrivato in Italia, con ottime referenze (lo avevamo già visto, agli Europei del 1980, con la sua Nazionale, segnare un grande gol al Belgio, in una partita che terminò 1-1). Prima di approdare a San Siro, in coppia con il connazionale Mark Hateley, il centrocampista britannico aveva giocato con il Chelsea (del quale fu capitano, a soli 19 anni, nel 1975) e con i Red Devils del Manchester United.
A Milano arrivò a 28 anni. Era quello che un brillante scrittore di calcio, Sergio Taccone, ha definito, negli anni scorsi, il “Piccolo Diavolo”, vale a dire la squadra che precedette, di pochi anni, quella che avrebbe impressionato il mondo, negli ultimi anni ’80, e nei decenni successivi. Il popolo rossonero veniva dall’umiliazione della Serie B, dal calcioscommesse e dai successivi disastri societari. La coppia britannica era quello che ci voleva per tornare a sognare.
Con la maglia rossonera, Wilkins disputò 105 partite, andando a segno 2 volte. Soprannominato “Rasoio” per la precisione dei suoi lanci, era dotato anche di un tiro potente (memorabile il suo primo gol in serie A, al Partenio di Avellino): tuttavia, al Milan la sua vena realizzativa non decollò (ma, del resto, neppure in precedenza fu un grande cannoniere). Se ne andò da Milano nel 1987, quando a prendere il suo posto arrivò un certo Ruud Gullit.
Ray non era un fuoriclasse del livello di altri, che, nello stesso periodo, calcarono i palcoscenici italiani (basti pensare a Platini e Zico, per fare due nomi, senza dimenticare che la nazionale azzurra era campione del mondo in carica). Però era un calciatore in grado di regalare colpi di un certo livello e, soprattutto, veniva a colmare un vuoto in una tifoseria abituata ai piedi buoni ma che, da troppi anni, non ne vedeva vestire la maglia rossonera.
Silvano Pulga nel suo articolo su Mondo Sportivo, ricorda benissimo l’estate del 1984, con l’annuncio dell’arrivo suo e di Hateley: finalmente, dopo tanta mediocrità, approdavano in rossonero un regista affermato, nel pieno della maturità, che aveva già dato dimostrazione del proprio talento, e un centravanti giovane ed emergente, che andavano a far parte di un gruppo in costruzione che aveva in Franco Baresi e Pietro Paolo Virdis i propri fari. Nel suo periodo rossonero, un certo Paolo Maldini avrebbe fatto il suo debutto in Serie A: ma questa, è un’altra storia.
L’apoteosi della coppia britannica fu, senza dubbio, il derby d’andata del 1984: 28 ottobre, domenica pomeriggio, Hateley che salta più in alto di Collovati, e insacca alle spalle di Zenga il gol del definitivo vantaggio milanista, che voleva dire il ritorno alla vittoria nella stracittadina, dopo anni di purgatorio.
Gli anni di Wilkins al Milan non furono facilissimi: la concorrenza era, oltre all’Inter di Rummenigge, soprattutto la Juventus del già citato Platini e Boniek e, in seguito, il Napoli di Maradona. Ma erano anni dove, in Italia, giocavano anche fuoriclasse del livello di Zico: insomma, era la Serie A che, negli anni successivi, avrebbe dominato l’Europa calcistica. Erano però anche gli anni terribili dell’Heysel.
Poi, nel 1986, l’arrivo della Fininvest e di Berlusconi nel calcio e, soprattutto, nel Milan. Il presidente decise, dopo la prima stagione, di dare una diversa impostazione al club: via Liedholm e dentro Sacchi, per prima cosa. E poi, la costruzione di una squadra nuova, che avesse le fondamenta basate su quella esistente (Baresi, Tassotti, Maldini, Donadoni, Virdis) e che venisse integrata poi da altri campioni. Gli stranieri, soprattutto, dovevano essere emergenti e giovani: arrivarono così Gullit e Marco Van Basten.
Per il “Rasoio” non c’era più posto: il centrocampista inglese passò così al Paris Saint Germain, prima di tornare in Gran Bretagna (in Scozia, ai Rangers di Glasgow). Ma Ray Wilkins avrebbe sempre avuto, ricambiato, il Milan nel cuore. E, poco tempo prima di morire, in una trasmissione televisiva, parlando del suo undici ideale, inserì, al fianco di tanti giocatori britannici della sua epoca, Maldini, Baresi e Donadoni, con parole al miele per tutti (“Sono tra i più forti coi quali abbia mai giocato”).
Ed è con pari sentimento che, oggi, chi lo ha visto a San Siro con il pallone tra i piedi, lo ricorda con affetto. Addio Rasoio, giocatore di quando, a San Siro, c’erano solo due anelli.
Fonte: Mondo Sportivo