“A.A. A. cercasi portiere”. Il signor Pasta, torinese, adocchia questo annuncio su un giornale e pensa che, forse, può avere il candidato giusto. Siamo nell’ottobre del 1930, in un’epoca in cui se avevi bisogno di cercare qualcuno c’erano solo due strade: il passaparola o qualche riga su un quotidiano. Pasta chiede ai genitori del ragazzo, un liceale diciannovenne, il permesso di proporlo per il provino. All’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. Loro acconsentono, ed è così che Pietro Miglio, originario di Trinità, passa dai pali dei Liberi del Crocetta a difendere la porta della squadra campione d’Italia, l’Ambrosiana Inter. Per i milanesi non è un bel momento, hanno fuori entrambi i portieri, Valentino Degani e Bonifacio Smerzi, per infortunio. Da qui l’annuncio, e la grande occasione di Pietro.
Nato a Trinità, nel Cuneese, nel 1910, è figlio di un tecnico delle ferrovie Francesco Miglio e della benese Luigia Gazzera. Viene alla luce – come racconta Paolo Roggero su “L’Unione Monregalese”, nel luogo d’origine del babbo quasi per caso, lui era di stanza a Napoli e la moglie torna al paese per farsi assistere in occasione del parto (e anche perché, all’epoca, sul certificato di nascita era meglio avere scritto “Trinità” che “Napoli”, se si era destinati a vivere in Piemonte. Peccatucci d’altri tempi, di un’altra Italia). Il bambino nasce al primo piano sopra al caffè, nella piazza principale del paese.
Pietro Miglio intraprende la sua nuova avventura, tra i suoi compagni c’è Giuseppe Meazza, forse il più grande giocatore della storia del calcio italiano: due volte campione del mondo, uno dei maggiori marcatori di sempre. Solo nella stagione ’29-‘30, quella in cui l’Ambrosiana Inter conquistò il terzo scudetto, aveva segnato 31 gol. Il suo allenatore per quell’anno è Árpád Weisz, il geniale tecnico ungherese che solo un decennio dopo avrebbe trovato la morte ad Auschwitz. L’interruzione del percorso sportivo di Weisz e la sua fine sono una delle storie di sport più dolorose del Novecento.
Miglio si fa onore in un periodo non facile per la squadra. Dopo l’esordio contro la Pro Vercelli, un successo, seguono gare meno fortunate. Alla fine di quella stagione Weisz lascerà la squadra per andare al Bari. Ai quarti di finale di ritorno di della Coppa dell’Europa Centrale, contro lo Sparta Praga, arriva una cocente sconfitta. A dispetto della malaparata, il trinitese viene incoronato dai giornalisti il migliore in campo, per aver evitato all’Inter un’umiliante disfatta. Uno degli episodi più curiosi accade in occasione di una sconfitta contro il Torino. Il Guerin Sportivo gli dedica una vignetta, che lo ritrae mentre torna a casa con i palloni nel sacco, mentre rimpiange di non essere rimasto al Crocetta. “Mi avevano detto che mi conducevano in una buona squadra…”.
La parentesi in nerazzurro di Pietro è breve, ma non lo sarà la carriera da calciatore professionista: trascorrerà i successivi diciassette anni in giro per l’Italia, tra varie squadre, anche a causa dei reumatismi articolari, che lo costringono, seguendo i consigli dei medici dell’epoca, a scegliere località calde, di mare. Dopo la ferma militare in cavalleria, gioca a Trapani, Messina, Casale, Olbia, Teramo, Pescara, Torino, Alessandria. In quest’ultima formazione gioca la penultima stagione della sua vita, una delle più dolci, che si conclude con la vittoria del campionato misto di Serie B-C on relativa promozione in Serie A. Appende i guantoni al chiodo nel 1947, dopo una stagione con il Pinerolo. L’unico rimpianto resta non aver potuto vestire i colori della Juventus: all’epoca del suo ingaggio all’Inter tra i pali della Vecchia Signora c’era l’inamovibile Combi, e Miglio si era dovuto rassegnare.
Fuori dal campo c’è il posto fisso in Fiat: per quegli strani scherzi che a volte il destino decide di giocare, in ufficio si trova un ragazzo timido, di dieci anni più giovane, che lui aiuta ad ambientarsi nella realtà dell’azienda. La grande passione per il pallone li accomuna, e avrà modo di dimostrarlo in seguito. Quel ragazzo si chiama Valentino Mazzola. Anche per questo, nel 1949 la notizia di Superga è una coltellata, che lo priva di tanti amici ed ex compagni di squadra.
Pietro Miglio non smetterà di seguire il calcio. La figlia Carla, apprezzata medico pediatra, ricordava con affetto lo stupore, davanti al calcio degli anni ’80, con ingaggi ben più alti, il divismo dei campioni. Anche l’abbigliamento dei giocatori incuriosiva suo padre. “Era stupitissimo che i portieri avessero i pantaloni lunghi – ricorda –: sosteneva che ‘le gambe non patiscono’, l’importante è essere ben coperti sul torace. All’epoca indossavano maglie di lana per giocare”. Pietro Miglio ha attraversato una delle stagioni più difficili della nostra storia, ed è stato testimone e protagonista di un periodo unico del nostro calcio, più povero, ma vero; fatto di amicizie e di affetto autentico tra i campioni e i suoi tifosi.
Quando si parla del Grande Torino si ricorda spesso come i giocatori e il presidente talvolta intervenissero direttamente in aiuto di qualche tifoso, in un momento difficile, magari per negoziare uno sconto sull’affitto con il padrone di casa, per sanare una controversia. Si faceva leva sul legame tra tifosi innamorati degli stessi colori. Una volta Carla Miglio si trovòad andare ad Olbia, in vacanza, il padre le chiese di passare al Bar Sport del paese, per portare i suoi saluti, in caso ci fosse ancora qualche vecchio tifoso, qualche amico testimone di quell’epoca. Entrata nel bar, fatto il nome del padre, dopo qualche minuto di passaparola, Carla videun signore farsi avanti, avvicinarsi, e stringerla in un abbraccio. “Questo signore ovviamente non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima. Era stato un tifoso di mio padre. Come ha sentito il suo nome è venuto ad abbracciarmi come se ci conoscessimo da sempre. È stato un momento molto toccante”. In quell’abbraccio c’è tutto lo spirito del “Calcio di una volta”. Pietro Miglio è scomparso nel 1992, riposa al Cimitero Parco di Torino.