Trentasei anni fa il gol che ha cambiato la storia del calcio. Non quello degli 11 tocchi, centrocampo-porta, che ancora emoziona gli spettatori che ascoltano incantati la voce di Victor Hugo Morales (che non è nemmeno argentino), ma quello di prima. La mano de Dios. La punizione che Diego Armando Maradona per conto dell’Onnipotente ha voluto dare all’Inghilterra dopo che la stessa, 4 anni prima, aveva invaso le Falkland-Malvinas, uccidendo centinaia di giovani argentini, e non contenta impose l’embargo sulla nazione e lo fece imporre da tutta Europa. Furono escluse Italia e Spagna dato che quasi la totalità degli argentini ha origini italiane o spagnole. Dopo aver vinto la guerra gli inglesi poi lanciarono frecciatine a sudamericani, italiani e spagnoli, dicendo che l’Argentina aveva perso la guerra (durata pochi mesi) perché avevano appreso il modo vigliacco di combattere di spagnoli e italiani. Leonardo Ciccarelli ha voluto analizzare un aspetto della poliedrica vita di Dieguito, attraverso il rapporto con i grandi (e scomodi) leader latini. E non solo.
La giustificazione a quel gol, Maradona, l’ha sempre data così. Una lotta politica al potere imperialista del Regno Unito e dei suoi alleati. Un impegno politico concreto che il numero 10 più forte della storia ha sempre messo al centro della propria vita, sia da calciatore, ancora di più da ex calciatore.
In campo faceva parlare il suo sinistro magico, la sua poesia fatta movimento, la gioia che infondeva nei cuori delle persone, da ex invece ha avuto bisogno di un megafono per cantare al mondo tutte le ingiustizie che ha visto, che ha vissuto. Non ha mai nascosto l’amore per il denaro e non ha mai nascosto lo schifo che prova da uomo di sinistra nel vedere tutti questi soldi nel calcio.
Maradona è stato il punto di congiunzione tra il calcio da strada, nella polvere, come unica soluzione alla vita, e di quello attorniato da starlette e divi di Hollywood, da denari e automobili di lusso. E questo punto di congiunzione per Diego pesa. Negli anni da calciatore ha girato il mondo, ha conosciuto i più grandi leader politici del pianeta. E’ una leggenda in Cina, ha sostenuto tanti leader che hanno provato a mettere le persone al centro di quello che viene chiamato il terzo mondo e soprattutto ha stretto una profonda amicizia con Hugo Chavez, Fidel Castro e Nicolas Maduro.
I due leader sudamericani più importanti del ‘900, con Allende, hanno visto in Diego un “erede” politico. Un uomo che è in grado di conversare con tutto il mondo, Occidente ed Oriente, Nord e Sud, perché è famoso in tutto il mondo. Chavez e Fidel hanno convertito ed investito Maradona del Verbo Rivoluzionario che bisogna essere inseminato in tutto il pianeta affinché la visione capitalistica (secondo il loro punto di vista, cattiva), non prenda il sopravvento. Maradona è cambiato molto con Chavez, Fidel e Maduro. Diego prima di ritirarsi era un cavallo pazzo, non solo travolto dai vizi, ma anche nel modo di approcciarsi all’ambiente politico.
Nella sua autobiografia “Io sono El Diego” racconta di quando a colloquio con Giovanni Paolo II chiede al Sommo Pontefice di fare qualcosa di concreto per aiutare i poveri e vendere i beni, sempre nella biografia parla del pensiero condiviso con Marx e con i grandi comunisti dell’America Latina ma è dal ritiro e dalla cura dimagrante mista a disintossicazione che Fidel Castro gli ha permesso di fare a Cuba (imposto?) che Maradona è poi diventato un militante attivo.
Ha sostenuto Dilma e Lula, dichiarandosi un loro soldato, ma non solo i leader brasiliani: Daniel Ortega in Nicaragua che lo ha insignito dell’Ordine Sandinista e con sua moglie Rosario Murillo, grandissima poetessa del Sudamerica, e soprattutto ha sostenuto la Kirchner nelle elezioni svoltesi in Argentina criticando aspramente le mosse del “L’imprenditore” Mauricio Macri, ex presidente del Boca Juniors tra l’altro. Quando morì Néstor Kirchner, si presentò alle esequie nella Casa Rosada con Evo Morales, capo di stato della Bolivia, anch’egli rivoluzionario ed avevano anche fatto una partita di calcio con alcuni amici, tra cui Ahmadinejad.
Al quale Maradona aveva poi regalato la sua maglia numero 10. A Maradona piaceva molto l’idea anti-americana dell’ex presidente dell’Iran, anche se non amava le mire antigiudaiche che aveva. Nonostante tutto, il gesto fece scoppiare un vespaio di polemiche in tutto il mondo, con la comunità ebraica in Argentina che pretese le scuse del Pibe. Scuse non pervenute. Inutile ricordare l’amicizia con Evo Morales e Pepe Mujica, il presidente uruguagio che si è tagliato lo stipendio ed andava in giro in utilitaria e sandaletti, che in passato aveva combattuto per la rivoluzione imbracciando un fucile, o ancora la stima che prova nei confronti di Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, molto meno estremista dei sopracitati leader socialisti e che ha voluto capire i pregi ed i difetti dell’Occidente studiandoli dall’interno, prima in Belgio, poi negli Stati Uniti stessi. Ed è questo che Maradona ama di Correa: il fatto di essere il futuro politico dell’America Latina, un rivoluzionario moderno che non viene dalle campagne abbracciando un AK-47, ma che ha toccato con mano i pregi ed i difetti del capitalismo.
Anche Maradona ha cambiato Chavez e Fidel Castro però. In gioventù i due leader non erano grandi appassionati di calcio. Lo sport che regnava nelle due nazioni era il baseball (tant’è che negli anni ’90 e a inizio 2000 in MLB la stragrande maggioranza dei giocatori era latina, oggi giapponese invece), ed i due si sono appassionati al calcio solo in seguito, grazie all’influenza di Maradona, ed anche perché il bolivarista presidente di Caracas ha seguito le orme di molti suoi predecessori e ha cominciato a puntare sugli sport a dimensione globale, molto più di Fidel Castro, anche perché per Chavez il baseball è troppo un gioco da “gringos” ed hanno trovato entrambi nel calcio ed in Diego, un degno avversario alla politica imperialista americana.
Alla Copa America del 2011 leggendario il live tweetting di Chavez che guarda la partita del Venezuela con Fidel Castro, e Maradona ha investito in prima persona, e fatto investire soprattutto a Chavez, molti quattrini nella costruzione di campi di gioco e scuole calcio per i bambini meno fortunati. In un comizio nel 2009, Diego si presentò alla destra di Chavez con la maglietta “Con Chavez, sì allo sport”. Chavez vinse, poi si ammalò e andò a Cuba dall’amico Fidel per curarsi. Maradona partì per gli Emirati in vista di una nuova carriera dirigenziale e da allenatore ma con uno sguardo sempre rivolto al leader del Venezuela: “Prego per lui, lo amo”. Con Fidel c’è un rapporto molto più confidenziale, mentre con Chavez è di riverenza. Diego si è tatuato il volto di Fidel Castro, come si è tatuato il volto di Ernesto “Che” Guevara e considera Castro un eroe ed una figura emblematica dell’umanità. La riverenza con Chavez nasce sempre dall’odio di Maradona per gli Stati Uniti. Per Maradona è lì il punto. “Chavez ha liberato il Sudamerica dalle grinfie degli Stati Uniti d’America. Ci ha presi per mano e ci ha fatto alzare la testa, rendendoci orgogliosi di essere latini e camminare da soli“. Dopo il primo incontro con Chavez, Maradona affermò di essere andato in Venezuela per “incontrare un grande uomo”, ma di avere invece “incontrato un gigante”. Non solo amicizia con i leader comunisti, anche contestazione, tanta contestazione, dei leader capitalisti: il dire “assassino” al presidente degli Stati Uniti George Bush, esprimendo il sostegno alla lotta delle minoranze o di movimenti sociali americani. Ha partecipato al Vertice dei Popoli, chiamato anche “controvertice” in opposizione al 4º Summit delle Americhe a Mar del Plata salendo a bordo dell’Expreso del Alba, un treno che partì da Buenos Aires e che trasportò 160 partecipanti, tra i quali il candidato alla Presidenza della Bolivia Evo Morales, il presidente venezuelano Hugo Chávez, Silvio Rodríguez, Adolfo Pérez Esquivel e le Madri di Plaza de May.
Questo incontro scatenò le ire di Fox, presidente del Messico, che Maradona non esitò a chiamare “Servo degli Stati Uniti“. Maradona a quel vertice parlò, si riferì al presidente degli Stati Uniti George W. Bush come “immondizia umana”, vestendo la maglietta “Stop Bush” e qualche anno dopo rincarò la dose affermando di odiare “tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, lo odio con tutte le mie forze”. Ha proseguito a lungo la sua battaglia contro la Chiesa accennata in precedenza perché secondo El Pibe non fa abbastanza per aiutare il prossimo. Le cose con la Chiesa sono cambiate dall’elezione di Bergoglio, Papa Francesco: “De ahora en adelante soy el capitán del equipo de Francisco“. Il capitano della squadra di Francesco. Ne ammira i modi di fare e la ventata di rivoluzione che sta portando al Vaticano. Per Maradona è un comunista d’altri tempi ed anche se Bergoglio ha sempre negato, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i pensieri dei grandi filosofi “rossi” ha rivisto in Papa Francesco delle tracce di un passato “mancino”.
Ultimo, ma non ultimo, il rapporto con la crisi del Medio Oriente. Maradona non può essere esente dall’esprimersi in merito, anche perché oggi ci vive. Già negli anni ’90 con Evo Morales prima e con Ali Kafi poi, presidente dell’Algeria dal ’92 al ’94, ha espresso sostegno e volontà di lottare per il popolo Palestinese. Spesso è andato in giro con maglie personalizzate con la scritta “¡Viva Palestina!” e nell’annata 2011–2012, quella da allenatore dell’Al Wasl, si è detto essere il primo sostenitore della causa palestinese.
Circa tre anni fa Diego è stato vicinissimo ad approdare sulla panchina della nazionale palestinese, gratis, per infondere coraggio ai giovani del Paese e per portare la nazionale alla Coppa d’Asia, ma poi tutto terminò con un nulla di fatto. Maradona non è un uomo qualunque, lo ha sempre detto. Non si è mai nascosto. Maradona è un uomo che va accettato così com’è ed è un atleta unico, uno che sposta gli equilibri geopolitici di un Pianeta. Come Maradona, solo Muhammad Ali sotto questo punto di vista. Non è un caso se Diego Armando Maradona riteneva Ali uno dei più grandi uomini che abbiano mai calcato questa Terra.