«Perché non mi hai telefonato per dirmelo?». Quando Francesco apre la porta di casa, non immagina di trovare la moglie ancora innervosita per l’accaduto. Prova a spiccicare due parole («Non ci ho pensato», «Credevo non fosse così importante»), ma finisce solo per aggravare la situazione. Perché l’evento è eccezionale, e andava raccontato subito: lui, che di cognome fa D’Arrigo, ha battuto Arrigo, che di cognome fa Sacchi.
È il 6 aprile 1994, e nel pomeriggio le agenzie di stampa battono la notizia: Italia-Pontedera è finita 1-2. Nelle redazioni, qualche giornalista pensa ad un errore: avranno dimenticato lo zero, sarà finita 10-2.
Perché è nell’Italia – e non nel Pontedera – che giocano i vari Baresi, Maldini, Baggio, Signori.
Nella formazione toscana di C2 ci sono nomi che sono e resteranno sconosciuti nei piani alti del calcio. Chi farà più fortuna sarà Alfredo Aglietti, una parentesi anche a Verona (prima Hellas, poi Chievo) dopo l’anno in A col Napoli. È lui, a metà frazione, a segnare il 2-0, ribattendo in rete una respinta di Marchegiani.
Il tutto a pochi minuti dalla perla di Matteo Rossi, e poteva essere tranquillamente quel gol della bandiera che da solo vale come una vittoria. Come accaduto qualche mese prima per il San Marino, che si era concesso il lusso di andare in vantaggio contro l’Inghilterra (a 8 secondi dal fischio d’inizio); la sconfitta per 7-1 non aveva sbiadito la gioia.
Nella speranza che gli azzurri riescano almeno ad acciuffare il pari – Massaro intanto accorcia le distanze – il secondo tempo viene allungato di qualche minuto, tra le proteste di chi è arrivato a Coverciano per vedere la Nazionale, ma si è immedesimato nei calciatori di quarta serie che stanno facendo l’impresa. La difesa del Pontedera regge: l’unica disattenzione la commette D’Arrigo, dimenticandosi telefonare alla moglie.
Ma, soprattutto, dopo due mesi l’Italia è protagonista di un grande mondiale negli Usa: le magie di Baggio regalano la finale, solo i rigori ci negano la coppa. Manca la controprova, ma viene da pensare che sia stato un po’ merito di quella scoppola. E forse anche noi, persino dopo le sconfitte più brucianti – le “Pontedera” della vita – possiamo essere capaci di cose grandi.