C’è stato un dieci che Giancarlo Antognoni aveva sognato di essere, prima di diventarlo. Così come c’è stata una Fiorentina che non ebbe nemmeno il tempo di porsi il dubbio se fosse o meno degna di vedersela con le grandi: perché grande lo era diventata naturalmente, quando il presidente Enrico Befani decise di accontentare il razionalismo quasi cartesiano di Fuffo Bernardini portandogli in dote i dribbling e le finte di Julinho per la fascia destra e, dalla trequarti in su, le suggestioni e i consigli di… un prete. Ma un prete di quelli che non vedeva solo calcio da oratorio. Come ci racconta Paolo Marcacci.
Ma facciamo ordine, perlomeno per ricostruire la storia, tanto a creare disordine ci pensa il destino, quando rinvia il pallone alla cieca. Alla… viva il parroco, che come espressione ci sta anche bene in questo caso.
Corre l’estate del 1955, la Fiorentina è reduce da un quinto posto che sembra sussurrare “vorrei perché posso”… quindi tutti quelli che hanno a cuore le sorti della Viola non possono essere contenti. È già di per sé il germoglio di un’ambizione.
Padre Volpi ha un passato da giocatore e un occhio da osservatore; quell’occhio, assieme all’altro, glielo rapiscono ogni volta le giocate di Miguel Montuori, quando il religioso va a godersi le partite dell’Universidad Catolica de Santiago. Arrivato dall’Argentima, dal Racing di Avellaneda dove in due anni ha avuto poco spazio, Montuori costa quasi venti milioni di Lire; ne vale e ne varrà molti di più.
Il talento, quello autentico, è sempre meticcio, per definizione; figurarsi il suo, pensato da una madre india con discendenze africane e da un padre napoletano che di mestiere fa il pescatore. Gli scorrono dentro i rivoli di sangue delle genti abituate ad attraversare gli oceani, a sovrapporre la speranza alla nostalgia, le aspettative alla paura dell’ignoto.
Montuori è venefico e sublime al contempo, dalla trequarti in su: i gol più che realizzarli li soffia come piume nelle porte sguarnite, dopo arabeschi di finte; gli assist li firma con un tratto di stilografica per il potente Virgili. A Santa Maria del Fiore, benedetto è il Tricolore: lo scudetto alla sua prima stagione italiana, in ogni caso meno importante, paradossalmente, dei secondi posti in sequenza delle stagioni successive o anche della finale della Coppa dei Campioni del 1957, raggiunta e disputata al Bernabeu contro un Real Madrid da leggenda, che può sfruttare anche il fattore casalingo. La prima finale di un’italiana per il trofeo dalle grandi orecchie.
I gigliati restano grandi anche quando Bernardini va ad allenare la Lazio, anche quando arriva Kurt Hamrin al posto di Julinho, che a un certo punto paga il dazio alla saudade e attraversa un oceano di ritorno. Montuori di nostalgia non soffre; gli diventano care persino le zanzare del Lungarno, quando passeggia tra i tifosi che lo riconoscono.
La sorte è come una bagascia di fuori le mura fiorentine: quando le gira, ti lascia per strada senza nemmeno darti il resto. La Fiorentina vince la Coppa delle Coppe nel 1961, assieme alla Coppa Italia: quello scudetto non era stato una splendida eccezione, ma una pietra di posa. Ma in quell’annata Montuori è diventato soltanto una figurina dell’album: il suo inizio di stagione è all’insegna dei guai fisici, quando sembra averli smaltiti il tecnico ungherese Hidegkuti lo testa in una partita della squadra giovanile, a Perugia. Una pallonata tra tempia e orecchio destro lo tramortisce: il pronto soccorso all’inizio è soltanto una precauzione per la vista offuscata, ma la diagnosi è un masso che cade sul sentiero della sua gioventù. Diplopia, oltre a un distacco della retina: non ha ancora compiuto ventinove anni, tutto il calcio che ha dentro lo esprimeranno i ricordi che gli restano alle spalle; quella di Perugia è stata la sua ultima partita.
Il vagone della sua esistenza da quel momento in poi comincia a scorrere deragliando spesso, tra problemi di salute variegati, qualche rovescio economico, un ritorno in Cile per cercare almeno una residua serenità, la passione per gli scacchi nata all’inizio come una forma di terapia per la soglia d’attenzione. A Firenze torna a vivere negli ultimi dieci anni della sua esistenza, grazie anche a una raccolta fondi che vede uniti gli sforzi degli ex compagni, della tifoseria gigliata, delle istituzioni cittadine. Per una volta la parola gratitudine s’è fatta carne e gesto concreto.
Miguel Montuori saluta il mondo nel giugno del 1998, quando ha soltanto sessantasei anni. Sessantasei: come l’anno della tragica alluvione di Firenze, quando l’Arno s’insinuava ovunque violando ogni intimità cittadina, come raccontano anche i fotogrammi del film “Amici miei”. In quell’occasione, Montuori si presentò dal sindaco Bargellini con tutti i suoi trofei, mettendoli a disposizione per una raccolta fondi: uno dei tanti modi per dire alla città, lui che aveva visto la luce a Rosario nel 1932, che da quando vi aveva messo piede aveva cominciato a sentirsi figlio suo.
Fonte Guerin Sportivo