Perestrojka e Glasnost sono parole entrate a pieno titolo nella storia. Mikhail Gorbaciov fu l’uomo della svolta. La caduta del Muro di Berlino segnò la fine di un mondo. Lo sgretolamento della divisione tra est e ovest segnò anche l’arrivo dei campioni del mondo sovietico nello sport occidentale. Il calcio italiano fu in prima linea e non sono mancate le zone grigie. Dopo gli Europei dell’88 – vinti dall’Olanda in finale proprio contro l’Urss, che aveva eliminato con un secco 2-0 la Nazionale italiana di Azeglio Vicini – arrivarono Zavarov e Alejnikov. Zavarov non parlava una parola d’italiano.
E la barriere linguistiche, oltre al difficile adattamento a ovest, per uno che veniva dal blocco comunista, furono forse il più grande ostacolo al suo inserimento nel calcio italiano. Impensabile dunque parlare con lui di storia o di politica. Ingiusto definirlo però un bidone, come venne poi etichettato da molti: «Gli scarsi eravamo noi – ebbe modo di dire Pasquale Bruno, suo compagno di squadra alla Juve – non lui. Venne in una Juve minore, con l’impossibile eredità di Platini da gestire. Lui proveniva dalla fortissima Dinamo Kiev di Lobanowski. E non poteva essere un caso. E, comunque non era a Michel che assomigliava, ma semmai a un Totti, più avanzato, dribbling secco e visione di gioco».
Non aiutò certo l’esplosione di Sasha, come veniva chiamato dai compagni, il trattamento che gli riservò il Pcus lo stipendio degli Agnelli veniva girato al partito comunista sovietico che poi passava due milioni (di lire) al mese al giocatore. Una cifra impensabile anche allora per un calciatore. «Aveva dei buoni spesa per i supermercati – ha raccontato lo stesso Bruno – e girava per Torino con una Duna: noi sospettavamo fosse quella di Ian Rush, andato via l’anno prima. Ma non è che comunque ai tempi noi lo facessimo sentire in difetto: tutti avevamo l’obbligo di andare all’allenamento in Fiat. Io avevo una Panda 4x 4 per dire e nessuno si permetteva di girare in Ferrari, durante il lavoro». Una debolezza però Sasha ce l’aveva: l’alcool: «Vedevi girare queste bottiglie di vino, non si sa uscite da dove, negli autobus che ci riportavano dalle trasferte vicine. Puntualmente finivano in fondo, dove guarda caso c’erano sempre lui e Laudrup». Un altro calcio, un altro mondo. Il 1989 è stato l’anno della prematura scomparsa di Gaetano Scirea, diventato il vice di Zoff sulla panchina bianconera. Un anno alla Juve che – oltre al dolore per la perdita di uno dei suoi giocatori simbolo – ha portato una vittoria in Coppa Italia e Coppa Uefa. Insomma, non male. In quella Juve c’era anche Sergej Alejnikov.
Seppe che aveva firmato un contratto di tre anni, poi seppe che dopo un anno se la Juve non lo avesse più voluto ci sarebbe stata una clausola nella quale avrebbe dovuto pagare un indennizzo. In ogni caso non era certo sua intenzione, dopo aver vinto due trofei al primo anno, di andarsene. Per quale motivo avrebbe dovuto? Anche Zoff fu mandato via dopo quello che aveva fatto. E’ il riassunto della storia bianconera di Alejnikov. Cosa successe? «Io posso parlare per me. Non sapevo niente del fatto che sarei andato a fine stagione al Lecce. Mi gestiva una società di Padova che controllava i cartellini dei giocatori che erano all’epoca alla Dinamo Minsk e li piazzava dove voleva. Io come molti altri sovietici non avendo mai avuto un contratto prima d’ora non sapevamo come funzionasse, non conoscevamo i nostri diritti» spiegò una volta lo stesso Alejnikov.
A differenza sua il connazionale Zavarov non si ambientò. Perché? Alejnikov non ha mai voluto entrare troppo nello specifico, sicuramente il problema è stato di tipo caratteriale. Non è certamente stato un fuoriclasse, Sergej, ma un buon giocatore, abbastanza dotato tecnicamente molto intelligente dal punto di vista tattico; è stato schierato da Zoff, come centrocampista davanti alla difesa, anche se in carriera, ha giocato anche come difensore centrale, come in occasione della finalissima del Campionato europeo del 1988 nella quale, mancando i difensori titolari Bessonov e Kutnetsov, gli toccò l’improbo compito di marcare Marco Van Basten: «Perdemmo meritatamente contro l’olanda ma Van Basten, poiché lo marcavo io, ebbe una fortuna sfacciata, pescò l’asso con quel suo meraviglioso goal».