Marcava sempre l’avversario più forte
Ago 22, 2022

«Il mio compito era quello di marcare l’avversario più forte, gente come Rivera, Eusebio, Pelè, Sivori…» «Ho amato e amo il calcio, per me è stato fondamentale per la crescita interiore l’educazione e il rispetto»

Mediani si nasce o si diventa? Gianfranco Bedin da San Donà di Piave la risposta la conosce. Partito attaccante si è ritrovato mediano per volere di Helenio Herrera. Il “Mago”, infatti, doveva sostituire Tagnin in un ruolo sì delicato e provando e riprovando (anche Domenghini e Peirò) decise di appioppare il numero 4 a quel ragazzino della Primavera che correva come un forsennato. E così Bedin ha collezionato grandi vittorie (scudetti, Coppe Campioni e Intercontinentali) e grandi avversari (Rivera, Eusebio, Di Stéfano, Sivori, Pelé e Neeskens). Un lavoraccio…

Nell’Inter

«Per forza, allora il mediano era il marcatore della mezz’ala avversaria, il giocatore più forte, con il compito di annullarlo».

Allora, mediani si nasce o si diventa?

«Io ci sono diventato. L’allenatore ha visto in me determinate caratteristiche, il gran correre per esempio, e alla fine da punta che ero mi sono ritrovato a centrocampo, in marcatura».

Tanto sacrificio e pochi riconoscimenti…

«Ma è sempre stato così. Naturalmente l’attaccante, la mezz’ala, il trequartista riscuote sempre più successo degli altri, perché segna, la stampa lo incensa, il pubblico ha bisogno di qualcuno in cui immedesimarsi. Ai nostri tempi Facchetti usciva un po’ da questi binari, ma solo perché segnava tanti gol per essere un difensore. Comunque, a me non ha mai dato fastidio vedere i miei compagni di squadra in prima pagina».

Le sue sfide con Rivera…

«Sicuramente uno degli avversari più difficili da marcare. Giocava sempre a testa alta e quando prendeva la palla diventata impossibile togliergliela. Dovevo essere sempre concentrato, giocare d’anticipo e dargli fastidio, toccarlo… Quando li toccavi giocatori come Rivera si distraevano, si ribellavano, protestavano e non seguivano più la palla. Stesso trattamento per Pelé ed Eusebio».

Generosità e cattiveria…

«Alt: generoso sì, cattivo no. Sono stato espulso, ma per proteste nei confronti dell’arbitro, mai per gioco duro. Io toccavo, tenevo per la maglia, facevo sentire il fiato sul collo, ma mai in scivolata, mai per far male. La mia forza e la mia prestanza fisica mi permettevano di giocare d’anticipo, una delle mie qualità migliori. Forse è per questo che i miei interventi non erano mai violenti».

Bedin in Nazionale

E i gol?

«Alla fine penso di aver messo insieme una trentina di gol in tutti i campionati giocati».

Quello che ricorda con più piacere?

«In un derby che abbiamo vinto 2-1. Suarez mi passa la palla, Cesare Maldini cerca di contrastarmi e io di controbalzo l’infilo all’incrocio dei pali da 25 metri. Piacere doppio: gran gol e vittoria contro il Milan».

Del “collega” Lodetti che cosa dice?

«Ragazzo onesto, ottimo come giocatore, intelligente in campo, dava le geometrie alla squadra. Una pedina fondamentale di quel Milan. Un grande mediano, ma soprattutto un uomo molto intelligente».

Si ha l’impressione che il ruolo di mediano sia stato come uno “scrigno” nel quale è stato custodito, per una ventina d’anni, il segreto del calcio di una volta, fatto di grandi lotte, grandi battaglie, ma anche di un gran rispetto e una grande lealtà dentro e fuori del campo.

Bedin nel Varese

«Impressione azzeccata. A quei tempi, mi ricordo, parlavamo spesso, con Lodetti, con Bertini, di quella maglia numero 4 e dell’orgoglio con il quale la indossavamo. Eravamo fieri di essere dei mediani e lottavamo ogni giorno per quella maglia e per quel numero 4».

Da San Donà di Piave all’Inter, com’è successo?

«Per caso. Io giocavo in una squadra locale, una specie di vivaio bianconero. Stavo, infatti, per passare alla Juventus, ma a vedere quella partita passò, casualmente, il dottor Cappelli. Il giorno stesso venne a trovarmi col mio presidente per sondare il terreno, per sapere se ero contento di andare all’Inter. Chissà, se fossi andato alla Juve non avrei fatto la carriera che ho fatto in nerazzurro».

Il suo rapporto con Herrera?

«Dal momento in cui mi affibbio il 4 ebbe grosse pretese. Non solo dovevo marcare il giocatore avversario più forte per rompere il gioco dell’altra squadra, ma recuperare e impostare. Ci credeva lui e ci credevo molto anch’io, perché in quel momento, nel momento in cui ripartivo palla al piede, io ero l’uomo in più della squadra. Herrera ci teneva molto e forse in quel mosaico io ero l’ultimo tassello che mancava per renderlo completo».

Bedin (in piedi, terzo da sinistra) capitano della Sampdoria 1975-’76

Esaltando il modulo di gioco interista basato sul contropiede?

«Esatto. Perché era quasi impossibile che i Rivera, i Sivori, i Pelé, gli Eusebio, i Di Stefano, una volta persa la palla tentassero di rincorrermi e questo Herrera me lo ripeteva spesso».

Cos’è il calcio per Bedin?

«Ho amato e amo questo sport più di qualsiasi altra cosa. Per me è stato fondamentale, sotto il profilo della maturazione, della crescita interiore, dell’educazione e del rispetto. Io vengo da una famiglia molto povera, il calcio mi ha permesso di guadagnare bene, di mettere a posto me e la mia famiglia, nonostante questo l’ho sempre vissuto come passione e non come fonte di guadagno. Io per il calcio ho pianto e piango ancora, vorrà pur dire qualcosa».

Sempre pronto a sacrificarsi per gli altri…

«Le confido una cosa. Io provavo piacere a correre, a marcare, insomma a fare il mediano e penso che sia stato così anche per gli altri che abbiamo nominato. Non sentivo sacrificio, ma soddisfazione. Prendere quella palla, calciare quella palla, fare anche sfoggio di una certa potenza era un gioia e lo facevo perché mi dava piacere».

25 maggio 1980, Foggia -Livorno 2-0. Ecco l’undici amaranto, in piedi, da sinistra: Bertolini, Vernacchia, Martelli, Venturini, Cappelletti, Bedin. Accosciati, sempre da sinistra: Petrangeli, Tormen, Azzali, Barducci e Piccini

Nella vita di tutti i giorni cosa si è portato di quel ruolo?

«Il rispetto, la correttezza, l’educazione, la lealtà, l’amicizia, il gruppo. Cose che ho portato anche in famiglia».

Rimpianti?

«Un po’, quello di non aver fatto l’allenatore. D’altra parte ho iniziato con le assicurazioni e mi è andata bene. Ho fatto l’osservatore per l’Inter a tempo pieno e sono contento».

Fonte: Storie di Calcio

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