La lotta al tabù della depressione, agli stereotipi del calciatore, al capitalismo del pallone. C’è solo un Ivan Ergić, il figlio unico del calcio.
“Mio fratello è figlio unico
Sfruttato, represso, calpestato, odiato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Deriso, frustrato, picchiato, derubato
E ti amo Mario”
Mio fratello, probabilmente, è Ivan Ergić. E questi versi della canzone, anzi della poesia, di Rino Gaetano lo rappresentano perfettamente. Se non l’avete mai ascoltata fatelo, e capitene l’essenza. Il testo è una lista di luoghi comuni e stereotipi dell’uomo medio, della persona normale che segue le mode e i cliché imposti dalla società per non rimanere sola, emarginata. Come Mario. Come Ivan Ergić.
Lui è figlio unico perché totalmente lontano da tutto questo. Totalmente lontano dalle mode e da quello che deve essere fatto perché lo fanno tutti. Il Mario di Rino Gaetano pensa con la propria testa, si prende il tempo per riflettere, formulare una propria idea. Ed è per questo che viene deriso, represso, calpestato e odiato. Lui dalla società, Ergić dal calcio.
La sua storia – come racconta Marco Trombetta – in realtà inizia in linea con tutti i cliché. Nasce nella ex Jugoslavia, tra guerra e povertà, col pallone come unica strada da percorrere per tirarsene fuori.
“In Jugoslavia il calcio è parte della tradizione ed è giocato ovunque: in strada, nelle scuole o nelle squadre giovanili. Anch’io sono stato contagiato sin dall’infanzia: e a un certo punto ho dovuto decidere se continuare e seguire la strada del professionismo. Per me, in quel periodo, il calcio era l’unica scelta perché non ero in grado di immaginare la mia vita senza il pallone”.
Si trasferisce in Australia con la famiglia da profugo di guerra e strappa un contratto con il Perth Glory. Ergić è un centrocampista di fascia tutta corsa ed applicazione. Ha talento e il suo nome inizia a circolare anche in Europa, tanto che dopo un solo anno di professionismo riceve addirittura la chiamata della Juventus. Ha appena 20 anni quando sbarca a Torino, ma ci rimane soltanto due settimane, senza mai giocare una partita.
“Ho trascorso solo un paio di settimane alla Juventus, negoziando il contratto e svolgendo qualche allenamento. All’inizio, e anche in seguito, ebbi alcune spiacevoli esperienze con dirigenti del club bianconero. Atteggiamenti e situazioni comuni a tutte le grandi squadre, a differenza di quello che molte persone possono pensare”.
Ergić fa subito le valigie per trasferirsi in Svizzera, al Basilea. Inizialmente soltanto in prestito, poi a titolo definitivo. Stagione dopo stagione diventa un giocatore fondamentale, ma stagione dopo stagione si accorge che il calcio rappresenta tutto ciò che combatte, tutto ciò che odia. In campo vince titoli e coppe, mentre fuori lotta contro il demone della depressione, al punto da essere ricoverato in una clinica per quattro mesi. Un lungo periodo che gli permette di riflettere e di aprire gli occhi.
Ergić si rende conto che non può esistere un calciatore depresso. Non è possibile, si tratta di un errore. La depressione nel calcio è un vero tabù, è meglio non parlarne, mettere tutto sotto il tappeto. Invece lui ne parla eccome, se ne frega di essere l’anticalciatore, di andare contro un sistema predefinito dove tutto deve essere perfetto.
“Nel calcio essere omosessuale o avere problemi psichiatrici è la stessa cosa. Sono entrambi dei tabù. Tutto ciò che non rientra nel modello imperante del calciatore professionista è considerato sconveniente. Se sei depresso, come me, ti danno del gay o dell’uomo debole.”
Nel 2005 viene invitato a parlare in televisione ed è lì che esplode tutto il suo anticonformismo. Marxista convinto, Ergić si scaglia contro il capitalismo sempre più dilagante nel calcio, criticandone ogni aspetto.
“Hanno trasformato i calciatori in protagonisti di una fiction. Ciò che accade sul campo conta sempre meno: si parla delle loro vite private, si insiste fino all’esasperazione sulla loro immagine, sul loro aspetto. Alla fine, non c’è alcuna differenza fra un calciatore e un personaggio della Disney. Il giocatore è un prodotto, il tifoso un consumatore passivo. Le istituzioni, i club e i funzionari non vogliono sporcare l’immagine del calcio come sport bellissimo, umano e popolare. Ma il calcio non è più così, è diventato un business, più brutale, distaccato e commercializzato che mai”.
Boom, deflagrazione totale.Ergić arriva dritto come un pugno nella faccia apparentemente pulita del pallone. È il primo calciatore della storia che ne parla così direttamente, pubblicamente, senza nascondersi. E nel 2006, dopo i Mondiali giocati con la Serbia, fa anche di più: lascia la Nazionale perché la considera un contenitore ultra-nazionalista e lui non vuole farne parte.
“Lasciai la Nazionale per molti motivi e il disprezzo per i forti sentimenti nazionalistici è stato uno di questi. La Nazionale di calcio diventa una delle istituzioni che riproduce il nazionalismo e il collettivismo irrazionale, a un passo dalla xenofobia, dall’omofobia, dal razzismo”.
Seconda potente deflagrazione, ma non basta. Ergić, che ha scelto di non affidarsi ad alcun agente o procuratore di sorta, decide spontaneamente di affiancare la sua carriera da calciatore a quella di editorialista sul prestigioso giornale Politika. Inizia, anzi torna, ad attaccare tutto e tutti. Diventa di fatto il primo calciatore ancora in attività a schierarsi contro il suo stesso mondo, quello che gli ha dato fama e ricchezza. Qualcuno potrebbe pure chiamarlo traditore.
E infatti viene deriso, represso, calpestato e odiato. Nel 2009 il Basilea decide che non c’è più bisogno di lui e dopo quasi dieci anni insieme non gli rinnova il contratto. Ergić ha ancora 28 anni, è nel pieno della sua carriera, ma di offerte importanti non ne arrivano. Tutto tace e il suo agente non può fare nulla perché non ce l’ha. Chi se lo prende un calciatore che rinnega l’essere calciatore?
Se lo prende il Bursaspor, una delle nuove realtà calcistiche in Turchia. Ergić arriva nel Bosforo con tutto l’entusiasmo possibile, vince uno storico campionato ed è uno dei protagonisti dell’impresa sfiorata in Champions contro il Manchester United, che a Old Trafford vince soltanto 1-0. Poi dice basta, ad appena 30 anni. Ha già dato abbastanza, forse troppo, a quel mondo che non gli appartiene.
Oggi continua a scrivere, continua a dire la sua. Perché Ergić ama il pallone, ma odia il calcio. È figlio unico. E non gli importa di essere deriso, represso, calpestato e odiato.
Fonte Goal