Avevano previsto tutto, tranne la pioggia. Si erano preparati alle sgroppate di Facchetti, ai tocchi di Rivera e alle fucilate di Gigi Riva, li avevano studiati minuziosamente, per ore, tappati nell’ostello gelido di Monaco di Baviera. Non sapevano che un acquazzone li avrebbe messi in ginocchio. Ad Haiti l’erba è un bene prezioso. Una serata a sfogliare Storie di calcio, questa storia si legge tutta d’un fiato.
Philippe Vorbe, all’epoca centrocampista, occhi, azzurri come il Caribe, spacca il silenzio con la sua voce tuonante:”Per mesi ci siamo allenati sulla terra battuta, con le scarpette dal fondo liscio. Degli azzurri conoscevamo ogni dettaglio ma, credetemi, rimanere in piedi o soltanto toccare il pallone sopra un prato fradicio era qualcosa di impossibile per la maggior parte di noi“.
Sono passati più di 45 anni da quel pomeriggio di giugno. Fu il giorno in cui una generazione di fenomeni chiamò mestamente il cambio. Facchetti, Rivera, Mazzola, Riva, Chinaglia: i vice-campioni del Mondo del Messico al loro capolinea. Perché ciò accadesse, si erano resi necessari undici dilettanti haitiani con le scarpe sbagliate e l’entusiasmo della prima volta.
Mondiale di Germania, gara d’esordio: Italia Haiti. Alla fine del primo tempo il parziale è di 0-0. Ecco: visto dalla prospettiva di Port au Prince, con il vecchio porto inondato di sole e povertà, quel Mondiale sarebbe dovuto finire lì. Italia Haiti 0-0.
Sarebbe stato meraviglioso e, chissà, forse la storia, non solo calcistica, avrebbe preso un’altra piega. Invece si tornò in campo: giusto in tempo per vedere Emmanuel “Manno” Sanon evadere con facilità dalla guardia di Luciano Spinosi per segnare il più celebrato dei gol mondiali: quello che mise fine al record d’imbattibilità di Zoff.
A Port au Prince vi furono feste istantanee, caroselli per strada e anche un paio di morti, perché qui celebrazioni e dispute hanno la stessa colonna sonora: i colpi di arma da fuoco. Il caos durò sei minuti: il tempo necessario perché Rivera pareggiasse. Poi vennero l’autogol di Auguste e il gol di Anastasi. Italia Haiti 3-1. Avremmo dovuto farne almeno cinque. Ci eliminò l’Argentina per differenza reti. Haiti ci aveva fregati.
Di quella formazione capace di conquistare quell’unica qualificazione ai Mondiali, Philippe Vorbe è l’unico che ancora vive in patria. Tutti gli altri sono scappati all’estero. Negli uffici cadenti della federazione locale, l’impresa di quegli uomini è ricordata con una fotocopia color seppia, attaccata a una parete. Fine.
Racconta Vorbe: “Perdemmo con l’Italia, ma nel primo tempo avevamo giocato meglio. Poi ce ne fecero sette i polacchi e quattro gli argentini. Eravamo bravi, ma con zero esperienza per quel livello. Di sicuro eravamo un gruppo forte che avrebbe potuto riprovarci nel ’78. Ma non ci fu data la possibilità“.
Non solo. Per colpa di quella spedizione, il calcio fu cancellato dall’isola. Quella nazionale era stata voluta con forza e finanziata da Baby Doc in persona, il sanguinario dittatore che dominò il Paese per 15 anni. Fu lui a ottenere in modo sospetto di ospitare ad Haiti la fase finale della qualificazione al Mondiale. Raggiunto l’obiettivo, ottenuto anche grazie a qualche arbitraggio non proprio irreprensibile, Baby Doc regalò a ogni calciatore una Fiat 147 di seconda mano. Ma non permise loro di usarla: li spedì anzi in Germania con mesi di anticipo perché si preparassero alla grande impresa. Il tam tam mediatico era stato tale che si sospetta fosse servito a Baby Doc per sbarazzarsi dei suoi oppositori in totale tranquillità. Quasi 40 mila dissidenti trucidati, col Paese distratto dal grande evento.
Poi però il Mondiale, a parte quei 45 minuti con l’Italia, fu una missione non all’altezza delle aspettative. Baby Doc chiuse così ogni risorsa al calcio. Racconta Vorbe: “Sapevamo che c’era la politica alle nostre spalle, ma non ce ne siamo mai preoccupati. Ci volevamo bene, credevamo nel nostro lavoro e quando battemmo Messico e Polonia durante una serie di amichevoli in casa nostra acquistammo la fiducia necessaria. Poi ci trasferimmo a Monaco e quello fu un errore…“.
Antoine Tassy, il tecnico maniacale, aveva abitudini bizzarre. Non permetteva ai suoi di uscire dall’ostello, e impartiva allenamenti massacranti. Unica licenza: la visita di gruppo allo zoo, dove Vorbe, Sanon e il portiere Francillon firmarono estasiati i loro primi autografi.”Ci scaricammo sul piano nervoso. Troppo lunga l’attesa, troppo forte la nostalgia di casa. Sapevamo che l’Italia era nervosa e preoccupata a causa del dualismo Mazzola-Rivera, però poi entrammo in campo già cotti“.
Al ritorno in patria li accolse l’ira di Baby Doc. In pochi anni, quasi tutti lasciarono il Paese per paura delle conseguenze. Sanon, il giustiziere di Zoff, trovò posto in Belgio, poi emigrò negli Usa. Il “gatto nero” Francillon provò la sorte proprio in Baviera, nel Monaco 1860 a 500 mila lire lorde al mese, pagandone 100 mila di affitto. Ma faceva troppo freddo e dopo due mesi il tecnico, di nome Merker, lo cacciò perché non parlava una parola di tedesco. Anche Francillon oggi vive negli Stati Uniti, vicino a Boston.
Vorbe, l’unico mulatto di quella squadra, figlio di agiati imprenditori, non mollò. Giocò anche negli Usa, agli albori del soccer, assieme a Luis Cesar Menotti, poi tornò ad Haiti a farsi testimone di vent’anni di orrori.
“Sono in contatto solo con alcuni elementi di quella squadra. Ci sentiamo ogni tanto, i ricordi di quell’Italia vengono fuori. Non potrò mai dimenticare Capello in quel primo tempo: gli azzurri erano incavolati, capivano che le cose non andavano come volevano loro. Lui me ne diceva di tutti i colori. Non capisco l’italiano, ma so che mi odiava perché quella non era una passeggiata“.