Poche cose in Italia danno visibilità come il calcio e la Novese ne è l’esempio. Capace di vincere uno scudetto giusto un secolo fa – era il 28 maggio 1922 – la squadra biancoceleste rimane un cult fra gli appassionati di storia del calcio, un mito per il football dei pionieri e un fenomeno più unico che raro. Non a caso, prima che nel nuovo millennio tristi fatti di cronaca portassero alla ribalta la città, Novi è sempre stato il paese del cioccolato, del ciclismo e del calcio, sport dove quello scudetto ha permesso alla Novese di divenire per sempre parte della storia del calcio italiano. Furono una meteora quella squadra e quella società, un unicum irripetibile e proprio per questo degno di essere sempre ricordato. A partire dai fatti.
Genesi di un trionfo
Per comprendere come sia stato possibile per la Novese salire in vetta al calcio italiano occorre guardare alla fondazione del club biancoceleste. Nacque il 31 marzo 1919 sulla spinta di un gruppo di volenterosi, molti dei quali appassionati di calcio ma che quello sport avevano dovuto giocoforza abbandonare con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Erano giovani che prima del conflitto militavano nel Novi Fbc e nella Libertas, le due antesignane del calcio cittadino assieme alla sezione football della Forza & Virtù, società di ginnastica che quest’anno festeggia 120 anni. Furono loro, ragazzi scampati alla morte della Grande Guerra, a convincere i notabili cittadini a dare vita a una nuova squadra, la Novese, colori sociali biancocelesti. Fra i «Direttori», anche Natale Beretta. Fu lui a raccogliere i cimeli di quella nascita e a riporli in una cassapanca, proprio come fa un padre quando nasce un figlio.
Quella cassa di legno è riemersa pochi giorni prima del centenario del club, custodita di una persona che ne a cuore le sorti. Contiene i memorabilia della Novese: lo Statuto originale, i cartellini dei calciatori, alcuni numeri del giornale «Il Biancoceleste» e tanto altro. Su tutto, una maglia originale quasi intonsa, la prima della Novese. Non era un signor nessuno Natale Beretta. Fu lui, militare a Trieste a convincere alcuni elementi a venire a Novi quando il neo presidente del club Mario Ferretti prese le redini del comando. Il «Sire» non era un patron che passava inosservato. Sotto il suo impulso la società decise di dotarsi di un campo da calcio vero, realizzato in 6 mesi grazie al contributo della città e al sostegno dei soci fra cui un certo Costante Girardengo.
Fu il primo Campionissimo del ciclismo a chiedere che lo Stadium della Novese non prevedesse un velodromo. Un campo che sorse nella vecchia piazza d’Armi e che fu inaugurato il 5 giugno 1920. Un impianto enorme per la città, con 1500 posti a sedere, tribune in legno e spogliatoi in lamiera ricavati dalle lamiere dismesse dal campo militare inglese della vicina Arquata Scrivia. Un lusso per quei tempi. Stadio nuovo e società ambiziosa perché Silvio Mario Ferretti fin dal primo anno non badò a spese per rendere grande la sua creatura. Non a caso nel 1920-‘21 la Novese chiese l’ammissione al campionato di Prima Categoria – l’attuale serie A – ma la sua istanza fu respinta. Ferretti non si scompose e la sua Novese dominò il campionato Piemontese di Promozione del 1920-‘21. Molti elementi erano di categoria superiore e costituirono l’ossatura per il successivo campionato, quello dello Scudetto.
L’epopea del Tricolore
Le basi per il trionfo della Novese furono gettate nel luglio 1921 quando a Torino, in via delle Rosine 14, si consumò nella notte fra il 23 e il 24 la prima e unica scissione del calcio italiano. Da un lato i grandi club, convinti sostenitori del progetto di Vittorio Pozzo: il futuro commissario tecnico bicampione mondiale negli anni ’30 con la nazionale, era latore di un progetto voluto dalle squadre delle grandi città che prevedeva, in estrema sintesi una massima serie a 24 squadre scelte d’imperio e non per i risultati conseguiti sul campo. Dall’altro le altre società espressione di paesi più piccoli che invece avevano redatto – proprio e non per caso a Novi Ligure – un loro regolamento in cui il merito sportivo incideva più del «censo» e del blasone. A Torino si votata democraticamente (un voto per società) e il progetto Pozzo fu respinto con 115 voti contrari e 65 a favore. Fu scissione con 24 società – le top dell’epoca – che formarono la Confederazione calciatori italiani il cui torneo fu vinto dalla Pro Vercelli. Le altre compagini rimasero nella Federcalcio e diedero vita a un torneo suddiviso per aree geografiche.
La campagna acquisti biancoceleste
Il 31 luglio 1921, pochi giorni dopo la nascita della nuova formula del campionato di Prima Categoria, la Novese depositò una lista di 47 calciatori tesserati cui nel corso della stagione se ne aggiunsero altri 4. Vanno ricordati quei 51 campioni d’Italia: Carlo Alessio, Domingo Alice, Meo Alloisio, Giuseppe Asti, Gio Batta Bagnasco, Francesco Bensi, Leonida Bertucci, Amilio Bonato, Andrea Bovone, Adolfo Cattaneo, Pietro Cavo, Aldo, Luigi e Mario Cevenini (I, II e II, come si usava scrivere allora), Michele Cominetti, Guido Contardi, Giacomo D’Alife, Agostino Fossati, Carletto Gambarotta, Giuseppe Garrone, Luigi Gastaldi, Alberto Gaviorno, Gaetano Grippi, Pietro Massiglia, Maurizio Monticelli, Vittorio Murcio, Ettore Neri, Rinaldo Olivazzo, Giobatta Parodi, Mario Parodi, Nino Parodi, Luigi Alberto Quaglia, Paolo Quaglia, Paolo Re, Carlo Risso, Riccardo Rivara, Luigi Romagnano, Giacomo Salvi, Aristodemo Santamaria, Benedetto Santamaria, Emilio Savino, Pietro Scagliotti, Silvio Stritzel, Mario Toselli, Luigi Vercelli, Luigi Viterbo, Vittorio Viterbo. Il 6 settembre saranno aggiunti alle liste Paolo Barboro, Cavanna, Pio Dellepiane e Pio Parodi. Accanto a tanti giovani dal chiaro cognome legato alla città, la squadra voluta dal presidente Ferretti fu clamorosa. Arrivarono Asti dall’Inter, Bensi dalla Rivarolese, Bonato dall’Alessandria, i fratelli Cevenini ancora dall’Inter, D’Alife dal Balilla Genova, Gambarotta dall’Alessandria, Luigi e Vittorio Viterbo da Forti & Veloci Genova.
Non fu un caso che quella squadra annoverasse campioni che avevano indossato la maglia della nazionale perché l’intento di Ferretti era ambire allo Scudetto, senza troppi giri di parole come confermano gli acquisiti dei fratelli Cevenini (Aldo e Luigi erano azzurri al pari di Aristodemo Santamaria).
La fase eliminatoria
La Novese è inserita nel gruppo A con Biellese, Giovani Calciatori Vercelli, Pastore Torino e Valenzana. Ne esce trionfatrice con 6 successi, un pareggio, 18 reti realizzate e una subita (il 13 novembre a Valenza), Bagnasco bomber (4 gol) e una formazione tipo quasi immutata. I biancocelesti approdano alle semifinali nazionali dove sono inseriti nel girone con Petrarca Padova e Livorno con match di andata e ritorno dal 5 marzo 1922. La corazzata biancoceleste conosce pochi passi falsi: si impone 3 volte, pareggia una sola e deve ripetere per due volte il match con Padova con prima sfida annullata per incidenti. Il 30 aprile 1922, superando 3-1 il Padova sul neutro di Piacenza, la Novese approda alla finale assoluta che assegna lo Scudetto. La sua rivale sarà la Sampierdarenese di Genova che supera la Spal.
La finale
Fin da subito si capisce che fra rivieraschi e piemontesi c’è massimo equilibrio: 0-0 a Villa Scassi a Sampierdarena, analogo risultato a Novi allo Stadium dove i tifosi rossoneri genovesi arrivano con un treno speciale.
Serve lo spareggio ed è guerra di nervi fin nell’individuare il campo da gioco. La Figc aveva individuato il campo della Spal ma la Sampierdarese si oppose per paura di trovare un clima ostile avendo i liguri eliminato gli estensi in semifinale. Alla fine si opta per il campo cremonese. Per laurearsi campione d’Italia la Novese deve giocare 120 minuti. Al gol dei liguri di Mura al 32’ risponde 8 minuti dopo Neri su assist di Carletto Gambarotta. Poi il patatrac con Vercelli (Novese) che colpisce al volto, non visto dal direttore di gara, Grassi (Sampierdarenese) con parapiglia in campo e sugli spalti. Quell’episodio spinse i liguri a presentare reclamo, respinto il 22 giugno dalla Figc che inflisse 4 giornate di squalifica al campo ligure condonate dal Mario Ferretti, vice presidente Figc. Nei minuti finali, da due passi, insacca Carletto Gambarotta, un novese doc e l’ultimo di quei campioni d’Italia ad andarsene a fine millennio non prima di avere raccontato al grande Gianni Mura la dinamica del gol più importante della sua vita, trova la rete dello Scudetto.
C’è poco da festeggiare però perché i tifosi della Sampierdarenese, in stragrande maggioranza, danno vita a violenti scontri e assediano l’arbitro Agostini di Firenze negli spogliatoi. Raccontavano i più anziani fra i novesi che al ritorno verso Genova, i tifosi della Sampierdarenese furono salutati, non troppo amichevolmente alla stazione di Novi da quelli della Novese. Come fosse andata poco importa, la Novese era campione d’Italia 1921-1922 per la Federazione Italia Giuoco Calcio. Un’epopea irripetibile perché il club diverrà campione d’Italia 3 anni, 1 mese e 28 giorni dopo la sua fondazione, 1154 giorni di ascesa dal nulla all’olimpo del calcio. La Novese celebrò quello Scudetto alla maniera dell’epoca: niente feste di piazza, pullman scoperti o altro ma una cena sobria e «allegra» il martedì sera post scudetto in un ristorante della città, prima di partire per una tournée in Belgio e Francia. Poche righe sui giornali nazionali, qualcosa in più su quelli locali.
Il declino rapido
Tanto veloce fu l’ascesa quanto rapido fu il ritorno nell’oblio. Mentre la Novese vinceva lo Scudetto, il suo presidente- come vice della Figc – tesseva la tela per ricomporre la frattura con i grandi club e il documento finale che decise la riappacificazione fu siglato proprio a Novi. Fra i team iscritti alla massima serie anche la Novese inserita nel girone C dove si salva con 19 punti anche perché molti dei campioni dello Scudetto non vestono più la sua maglia. Sarà l’ultima stagione della sua storia in serie Prima Divisione perché l’anno dopo la Novese inserita in extremis nel girone B termina all’ultimo posto. Il declino ha una fine: 14 marzo 1926. Durante Novese-Spezia di Seconda Divisione, il direttore di gara Brugola di Lissone sospende il match per le violenze dei tifosi locali che lo picchiarono.
Il Consiglio federale decreta il divieto per la Novese di giocare sul proprio campo – sarà una maxi squalifica – e i dirigenti per protesta ritirano la squadra dal torneo. Sarà la fine della Novese per qualche anno, non del suo presidente. Silvio Mario Ferretti infatti, rimarrà vice presidente Figc fino ai primi anni ’30 divenendo nel 1926 anche vice presidente della Fifa. Un uomo inquadrato nel regime mussoliniano e padre di Mario Ferretti, anche lui Silvio di primo nome, cronista Rai a cui si deve l’incipit più famoso delle radiocronache del ciclismo: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.
Quel che rimane di quell’epopea
Dopo la gloria, per la Novese furono di polvere e fango in campetti di periferia regionale o al massimo interregionale. Un paio di stagioni in serie C negli anni ’70 rinvigorirono lo slancio della storia della Novese che presto divenne oggetto di cultura sportiva cittadina. A pochi volenterosi uomini di cultura locale si deve l’idea – geniale nella sua semplicità – di apporre una lapide – c’è ancora oggi – sui luoghi dove la Novese vinse lo Scudetto. Una targa che sorge proprio davanti a un campo da calcio della parrocchia nata negli anni ’50 sulle ceneri dello Stadium. Forse quei ragazzi che oggi giocano al campo “dei Frati” non sanno di praticare il gioco del pallone in un luogo che ha scritto la storia del calcio italiano. E la città? Dopo il boom demografico degli anni ’60 Novi ha perso molto della sua identità. La Novese ha sofferto la vicinanza con le grandi città del calcio divenendo team da seguire più sui giornali che allo stadio.
Chi ha provato a rinverdire i fasti del passato ne è rimasto scottato e oggi il club – fallito qualche anno fa – si barcamena in Promozione solo grazie alla forza del suo vivaio. La città vive una crisi economica profonda e il tessuto industriale ha perso slancio. Pochi investono nello sport. Ancora meno credono nella Novese e il detto latino «Nemo propheta in patria» ben si addice al contesto. In altri luoghi uno Scudetto centenario sarebbe stato oggetto di convegni, eventi, concorsi nelle scuole e quant’altro. A Novi le celebrazioni saranno ridotte al minimo segno di come quell’epopea si sia persa nel tempo e non sia divenuta patrimonio collettivo. C’è ancora tempo per rimediare magari partendo dai libri che quell’epopea hanno descritto e da cui si è attinto, come il capostipite «Una Novese da scudetto» scritto da Serafino Cavazza per i 50 anni dall’evento o il più recente «L’arduo cimento» di Marcello Ghiglione.
Maurizio Iappini