Il Real Madrid è un incrocio tra la NASA e la Coca-Cola, perché capace di contenere il cinema e il circo, il sogno e la frontiera, piaccia o meno, è nella vita e soprattutto nell’immaginazione di tutti. E se guardando negli spot della Coca-Cola si capisce dove è andato e dove andrà il mondo, o guardando ai progetti della NASA intorno a cosa gireranno i sogni, spulciando le formazioni del Real, e quello che han portato a casa, si può dedurre che calcio faceva quell’anno, e capendo qual è il prossimo obiettivo-frontiera cosa inseguire.
Al Madrid nessuno ha fatto mai abbastanza anche se tutti danno sempre il massimo: bisogna uccidere ogni giorno un leone per stare al passo e a volte non basta. Da Julián Palacios e i fratelli Joan (primo presidente del club) e Carles Padrós che misero in piedi il sogno fino a Florentino Pérez che si inventa i galácticos, c’è un mondo, quello madrileno, che ha epica a cascata e due rocce alle quali tutti guardano nei momenti di difficoltà: Alfredo Di Stefano e Santiago Bernabéu, entrambi per la squadra e nella squadra han fatto tutto tranne il pallone, ogni cosa discende da loro e a loro torna quando tocca ripartire.
Almeno un titolo all’anno potrebbe essere il motto. Per capire la loro storia non serve elencare i record – ne hanno per ogni cosa: dalle maglie agli sponsor, dai calzini ai gol – o contare i trofei, o partire dalla taverna “la Taurina” dove si cambiavano i calciatori dribblando il tram numero 20; ma bisogna mettere in fila alcuni dei loro calciatori che fecero le imprese, una specie di album Panini verticale e multiplo, per numero di maglia e ruolo con le epoche che stanno tutte insieme sullo stesso campo, e il sogno che li allaccia.
Ma prima di scendere in campo va considerata la singolare storia di Santiago Bernabéu, l’unico presidente di cui un tifoso indosserebbe la maglia, che si inventa tutto quello che oggi è il calcio alto: Champions League e Coppa Intercontinentale, che intuisce una sorta di ciclo produttivo calcistico di lusso.
Da calciatore ad allenatore e da dirigente a presidente, il suo percorso verrà concesso a tutti i calciatori del Real che ci proveranno, ultimo Zidane, e nessuno di loro toglierà mai la maglia anche lontano dal calcio, come nessuno di loro avrà mai avuto una squadra prima o dopo, è il suprematismo madrileno, considerarsi la NASA, e per quanto russi e cinesi ci provino, loro rimangono quelli che han fatto tutto quello che c’era da fare, e continueranno a farlo, condensandosi nell’eccellenza. E per capire lo stadio, prima che i calciatori, basta ricordare quello che disse Uwe Rahn post martirio di un cinque a uno: «Lì il pallone non esce mai dal campo: tu calci la palla fuori con tutto te stesso e chi effettua la rimessa laterale? … un tifoso». Il Bernabéu è uno stadio che divora i deboli e ammansisce i forti, qualcosa di simile alla sedia del dentista, come ricorda Jorge Valdano «non sai mai quando arriverà il dolore, e stai sempre in tensione». Perché al Madrid giocare, come vivere, significa attaccare, a cominciare dal portiere, non che debba andare a segnare, ma comunicare quella prepotente epica che si esplica in selvaggi sentimenti.
Maglia numero uno: Ardimento e dolore, piaceri e sofferenze, il portiere è sempre un ricordo che azzanna. Ricardo Zamora, Francisco Buyo, Iker Casillas. Tre portieri diversi, il primo ha creato la matrice – e si è iscritto al mito – gli altri due hanno provato ad allargarla. Zamora è il ruolo che si incarna, diventando cinema ed esempio, Buyo è l’umano che ci prova, Casillas è quello che ci riesce portando a casa più trofei di tutti, e piangendo come un bambino quando lascia. Insieme fanno un giorno d’estate che sarebbe piaciuto a Bernabéu. A riprova della fortuna dei portieri del Real, nelle giovanili c’era anche Julio Iglesias, pirata, signore y arquero.
Maglia numero due: bisogna avere il senso del tempo, spesso senza vedere il pallone, che hanno gli altri tra i piedi. Ángel Atienza, Luis del Sol e Miguel Porlán Noguera, conosciuto come Chendo. Atienza smise di giocare e prese a dipingere, quadri e poi murales, arrivando anche alla ceramica dalla Spagna al Venezuela. Il terzino destro di solito non tende all’estro, anzi, infatti gli altri due rispettano il ruolo e le aspettative, fedeli, posizione giusta in quasi ogni circostanza, impostandosi sul teorema José ‘Pepe’ Llopis Corona: «Pasa el hombre o el balón, pero nunca ambos».
Maglia numero tre: è quello dalla vita multiforme, di solito si lascia andare a calciare punizioni o a segnare spesso nonostante il ruolo e le epoche. Coriaceo, testardo, tende a diventare un allenatore di quelli poco inclini alle sperimentazioni: Manuel Sanchís (padre), José Antonio Camacho, Roberto Carlos, ad unirli la fantasia. A cominciare da Sanchís che era quello dal quale cominciava la “Quinta del Buitre” una fortunata definizione del giornalista Julio César Iglesias, per racchiudere cinque ragazzini che avrebbero fatto grande il Real: Sanchís, Michel, Martín Vázquez, Butragueño e Pardeza. Il terzino è l’unico ad aver vinto la Coppa Campioni. Camacho l’unico ad aver allenato il club, Carlos – indimenticabili le sue tortuose punizioni – è ambasciatore del Real, l’unico con una media gol da attaccante.
Maglia numero quattro: adesione palpitante, scossoni, e grande intelligenza per correre e tessere, trattenendo il respiro più volte, prima di lasciarsi andare a un tiro, a un tentativo di testa e al lancio. A volte domina su una porzione di campo altre su tutto. In genere funge da capitano, con o senza fascia. José Martínez Sánchez detto Pirri, Fernando Ruiz Hierro, Sergio Ramos. Sono stati la grinta del Madrid, incarnandone il carattere, hanno deciso partite e trascinato squadre, segnando il destino del club. Gli ultimi due hanno alzato la Coppa, Hierro quando mancava da 32 anni e Ramos quella che era la Décima.
Maglia numero cinque: viaggiano in parallelo tra caratteri diversi, spesso il numero diventa multiplo o si dimezza, senza perdere la centralità nel gioco. Sorpresa, contatto, classe, invenzione e sospensione, convergere e divergere. Sono quelli che a prescindere dalla posizione han sempre la mappa del campo, per questo hanno vinto tanto: Manolo Sanchís (figlio), Zidane, Cannavaro. Il primo è cresciuto sulle gambe del Real, un predestinato come Paolo Maldini, gli altri sono arrivati per maturarci e costruire il sogno.
Maglia numero sei: si muovono lungo diramazioni che si complicano per ogni allenatore, chiamati a scegliere una alternativa per ogni pallone, maglie e nodi, custodiscono tesori che tirano fuori in vecchiaia dopo averli scoperti in gioventù. Qualcosa che chiama in causa la libertà, la direzione da prendere e la forma adeguata per le energie che producono il movimento: Ignacio Zoco, Vicente del Bosque e Fernando Carlos Redondo. Quest’ultimo era il più forte dei tre, anche se Zoco era un pre-Iniesta, ma quello che ha fatto l’impresa era del Bosque (2 Liga: 2001 e 2003; e 2 Champions: 2000-2002), per Madrid e la Spagna, una specie di Galileo.
Maglia numero sette: così quando sarà tutto finito ci sarà un nuovo inizio. È la storia di questa maglia, quando immagini che abbia dato il meglio, pescato il migliore, ne arriva un altro, diverso e lontano, elefanti legati da un filo di lana. Dai dribbling in bianco e nero di Kopa a quelli al ralenti di Cristiano Ronaldo, passando per i movimenti mozartiani di Butragueño, e la capacità di segnare sempre e comunque di Raúl. È la maglia dispari dei calciatori con l’urgenza di andare, scendere, segnare. Ognuno di loro avrebbe fatto la storia comunque, ma qui di più.
Maglia numero otto: son quelli che danno certezze, non privi di fantasia, segnando nelle occasioni importanti, distribuiscono geometria andando oltre la propria timidezza. Son quelli che danno gli scrolloni senza alzare i toni, potrebbero guidare squadre antiterrorismo per come sono decisi e per come sanno ottenere quello che cercano e gli viene chiesto: Bernhard Schuster, Míchel, Predrag Mijatović. Di Míchel, Maradona invidiava la falcata, ma quella e la sua eleganza non bastarono a soddisfare la tifoseria del Real che con lui non ebbe un buon rapporto, nonostante fosse uno dei grandi di Spagna negli anni 80. Gli altri due son stati la praticità al servizio del club, per breve tempo, ma comunque son serviti. Schuster ha anche allenato vincendo una Liga. Mijatović regalò una Champions a discapito della Juventus.
Maglia numero nove: è la maglia ricolma di vita e storia, che ribolle e sgorga, è quella delle emozioni con le lacrime, è quella delle radici, dei soffi e delle sorgenti di calore, riunendo tutte le qualità, i ritmi, le melodie e le vittorie. È la maglia dei gol e dell’identità, per lei si potrebbe dire quello che ripeteva Bernabéu: «bianca che si sporchi di sudore, fango e, se serve, sangue, ma mai, mai di vergogna». È la maglia di don Alfredo Di Stefano, di Hugo Sanchez e di Ronaldo (quello vero). Gli ultimi due sono stati attaccanti diversi tra loro, ma uniti dal divertimento, e incontenibili in parti diverse dell’area di rigore: il messicano fu il primo a fare le capriole dopo un gol, senza usare le mani, usando benissimo i piedi per saltare, atterrare e segnare. Ronaldo, poi, è stato quello che abbatteva difese passando a velocità superiori, segnava gol con traiettorie al limite della fisica e della geometria. Tra i grandi del calcio. Però Di Stefano sta al Real come Cruyff al Barcellona, Pelé al Santos e Maradona al Napoli. È il calciatore simbolo, quello che crea il mito, e lo battezza con la gloria e valanghe di gol.
Maglia numero dieci: è il cuore che accelera sopra il piede abituato all’illuminazione, naturalezza e coinvolgimento, contiene gli ingegneri che allestiscono il credo e regolano il tempo, sistemando a colpi di sottigliezze il gioco, finalizzandolo se serve: Ferenc Puskás, Ulrich Stielike, Luís Figo. Tre calciatori diversissimi tra loro, che sembrano contraddire la storia, e invece no, la alimentano. Puskás è la bellezza del gol, Stielike la cattiveria per arrivare a quel gol, e Figo è quello che smania sulla fascia per metterla in mezzo.
Maglia numero undici: mai scomposti, carichi di significati ulteriori, capaci di segnare anche fuori dal campo, liberandosi dalle marcature e dai conformismi. I loro sono movimenti senza palla, di testa, che lasciano di stucco chi li segue. Francisco Gento, è l’uomo dei record: sei coppe campioni, e come Paolo Maldini ha disputato otto finali. Rafa Marañón è quello che al suo esordio segnò due gol, per poi diventare architetto, e Jorge Valdano è il calciatore filosofo, capace di andare oltre Socrates, da lui ci aspettiamo il grande romanzo spagnolo che – claro – passa dal Madrid.
La maglia numero dodici: Rogelio Antonio Domínguez, il portiere che giocava le finali e non le partite normali, è anche un pretesto per ricordare chi gli tolse il posto: Juan Adelarpe.
Maglie dispari fuori dall’undici: diciassette e ventitré, Van Nistelrooy e Beckham: la precisione del gol e l’andatura elastica.
Maglie pari fuori dall’undici: quattordici, Guti, che sta per José Maria Gutiérrez, come emblema del mondo Real, fatto di squadre satelliti, basket e glamour.
L’allenatore: ha a che fare con la parola legame, è come dirigere la filarmonica a Vienna, quelli che sono in campo se vogliono ti salvano lo stesso, perché di scarsi non ce ne sono. Deve farsi profeta e immaginare in meno tempo possibile per non essere stritolato. È sempre colpevole, solo la vittoria rende innocenti. Ha cominciato un inglese: Arthur Johnson, ora c’è un francese: Zidane. In mezzo, quasi tutti i migliori, alcuni maestri di vita come Luis Molowny e Vicente del Bosque, che han fatto da spola tra i settori giovanili e la prima squadra, col secondo che poi ha esportato il modello in Nazionale. E vecchi campioni del mondo come Héctor Scarone; dividerli in vincenti e perdenti sarebbe sbagliato e faremmo torto a Beenhakker e Antic, e con loro a Di Stefano che per due campionati non vide trofei. Il premio simpatia va a Boškov, che pure vinse, ancora ricordano le sue indicazioni a un calciatore prima di una sostituzione: «se la mucca non dà latte il vitellino muore», per dirgli di marcare stretto un attaccante. E poi Bernabéu, Valdano, Capello (2 volte) e Schuster. Ancelotti è quello della Décima, l’undicesima è di Zidane, l’ottava di Heynckes. C’è una sola accusa e si chiama Francisco Franco, il dittatore che negli anni 50-60 si accostò alla squadra per usarne il successo. Lo scrittore Javier Marías, stufo delle polemiche, spiegò: «gli sconfitti della Guerra Civile, preferivano il Madrid all’Atletico, nonostante l’aggettivo Real apparentemente contraddittorio. Il Madrid portava nel proprio nome quello della città assediata e bombardata, mentre l’Atlético Aviación era la squadra dei piloti franchisti, esattamente quelli che si erano dedicati a bombardare la capitale con accanimento». Come tutte le grandi cose anche il Real esiste perché creato o usato contro qualcosa. Per questo ogni partita è una rivendicazione.
Marco Ciriello
Febbraio, “Il Mattino”