Veniva dal barrio Encruzilhada, quartiere povero, dove fino a sei anni ha vissuto in una casa senza pretese con papà Romildo e mamma Marlucia, terzo di cinque figli. Ogni giorno Rivaldo usciva di fretta da scuola, la Presidente Castelo Blanco, si caricava in spalla i gelati prelevati in un deposito lì vicino e corre a venderli ai ragazzi di un altro istituto., raccontava la Gazzetta nel 2002. Durante il carnevale, poi, faceva anche gli straordinari e distribuisce bibite tra i carri e la gente in maschera. Ma al campetto dove Romildo lo accompagnava assieme ai fratelli, era già un fenomeno. Quando il padre era impegnato, Rivaldo percorreva a piedi venti chilometri tra andata e ritorno: la corriera costava troppo per lui.
Il brasiliano è stato un fenomeno ovunque tranne che al Milan. In rossonero il suo nomignolo non lo rappresentava più: altro che extraterrestre, parafrasando Bud Spencer era un giocatore “poco extra e molto terrestre” ma di sé ha sempre avuto – e continua ad avere – grande stima. “Se giocassi in questa epoca sarei di nuovo il migliore – ha detto il brasiliano in un’intervista rilasciata a Betfair – Se oggi avessi 25 o 26 anni non sarei il migliore al mondo una volta sola. Non voglio essere polemico, sono entrambi molto bravi, dico solo che in passato c’erano più giocatori di qualità rispetto ad oggi e soprattutto più giocatori in corsa al titolo di migliore al mondo. Ricordo Figo, Del Piero o Totti, oggi invece si sente parlare sempre degli stessi: Messi, Ronaldo, e un po’ di Neymar”. Era arrivato al Milan a luglio del 2002, subito dopo aver vinto il Mondiale in Giappone. Aveva lasciato il Barcellona (dove aveva vinto anche un Pallone d’oro) a parametro zero, si dice perché Van Gaal non lo volesse più. Ma in rossonero solo tante delusioni e poche gioie. “Ancelotti mi umilia. L’ho capito ad Ancona, dove sono rimasto in panchina per tutta la partita. Se non gioco in queste occasioni, ho pensato, non giocherò mai le grandi sfide”.
A dicembre, 5.362 persone lo votarono bidone dell’anno, peggio anche di Gheddafi jr del Perugia. Inizia così una terza vita girovagando per altri club.
Al Clarín ha raccontato la vera svolta della sua vita: “Un giorno mi sono recato da solo a Mogi Mirim, a 160 chilometri da San Paolo. E per l’intero viaggio ho sentito quella voce. Una voce forte, sempre più forte. Ho avuto la sensazione che mi sarebbe successo qualcosa quel giorno. E mi sono ricordato di alcuni conoscenti che sono morti in incidenti stradali. Mio padre è morto in un incidente”.
A quel punto, la svolta: “Sono rientrato con davvero molta paura addosso. Tornato a casa, sono uscito dall’ascensore e ho iniziato a piangere come un bambino. Quel giorno ho deciso di dare la mia vita a Dio. E non ho mai più sentito quelle voci”.
A quel punto a 32 anni, decise di tornare in Europa, trasferendosi all’Olympiakos in Grecia e disputando tre stagioni da protagonista. In seguito un lungo girovagare tra Grecia, Uzbekistan, Brasile, Angola e di nuovo Brasile.
Si è ritirato nel 2015, anno in cui giocava nel Mogi Mirim (squadra di cui era anche presidente), togliendosi la soddisfazione di segnare un gol assieme al figlio nella stessa partita. Da giocatore a tecnico, ecco che fa oggi. In Marocco ha allenato il Chabab, aspettando chiamate più importanti.