Per secoli l’unico islandese che si ricordi era l’aiutante del professor Lidenbrock in Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne, e di nome faceva Hans. Il cognome non era importante. Uno di quelli che gli davi le chiavi e ti faceva tutto. Persino parlare con le oche. Ma nessuno l’aveva mai visto giocare a calcio.
Eppure a Milano un uomo dell’isola ai confini del mondo che ci sapeva fare coi piedi era arrivato settantatre anni fa, esattamente nel 1948. Appena finita la guerra. Si chiamava Albert Gudmundsson, come quasi tutti gli islandesi, o meglio Guðmundsson con una lettera che conoscono solo loro. Calciatore, imprenditore, ministro. Una vita da raccontare. Alla faccia di chi – sottolinea Carlo Baroni sul “Corriere della Sera” – pensa che gli scandinavi siano noiosi come una tribuna politica. Il primo a sbarcare da noi. Mille anni dopo i Normanni. Timido come tutti i nordici. Al punto che quando entrò nella sede del Milan nessuno se lo filò.
Albert Gudmundsson e Paddy Sloan, nuovi acquisti del Milan 1948-’49. L’ultima foto lo ritrae in Francia nel Racing Parigi
Del resto lui all’Italia mica ci pensava. E forse neanche al calcio. Aveva studiato ingegneria navale in Scozia. Un lavoro l’avrebbe trovato facile, senza doversi fare il campo su e giù per novanta minuti, una domenica sì e l’altra pure. Poi si sa come vanno certe cose. In Islanda aveva una certa fama come calciatore. Ma era come dire di essere un cantante perché canti bene alle feste di matrimonio.
Il football vero era un’altra cosa. Roba da inglesi. Una vita prima che potessero essere presi a sberle proprio dagli uomini venuti dai vulcani (ci riferiamo alla clamorosa vittoria sull’Inghilterra del 27 giugno 2016 a Nizza, nell’Europeo). E pensare che Gudmundsson riesce persino a vestire la maglia dell’Arsenal. Con la stessa leggerezza con cui guardava il mare dalla sua casa di Reykjavik.
È il secondo non inglese a riuscirci. Per lui, però, c’era poco per cui vantarsi. E, in fondo, aveva ragione. Non c’era ancora la Brexit ma i permessi di lavoro per gli stranieri erano qualcosa che riguardava gente che aveva il portafogli gonfio. Albert non diventa matto per giocare in First Division.
C’è anche altro nella vita. Per esempio, un paio di birre fresche nei pub dalla parti di Highbury, lo stadio dei Gunners. Qui incontra uno come lui. Nel senso che gioca a pallone. Benino. Un ex pilota della Raf, tale Paddy Sloan. Segnatevi il nome. E chiedete ai vostri nonni casciavit. Già perché Sloan un giorno finì al Milan. E quando si trattò di segnalare un centrocampista di talento ai dirigenti si ricordò di Gudmundsson. Lo guardarono un po’ così. Forse un “no” secco l’avrebbe dissuaso.
Albert arriva a Milano: è il 1948 e ha 25 anni. Nel frattempo si è tenuto in allenamento in Francia. Campionato minore e non c’era neanche Ibra. È il primo islandese, il primo scandinavo a giocare da noi. L’apripista del Gre-No-Li. Loro erano un’altra cosa. Ma giusto per dare una ripassata in geografia e ricordarci che il Grande Nord non era solo Svezia, Norvegia e Danimarca. Gud segna subito alla prima partita, contro l’Atalanta.
Poi si perde. Il giocatore c’è, l’uomo è un po’ fragile. Un pinguino in mezzo agli squali. La freddezza scambiata per apatia. Una lingua che per capirsi devi mettere al bando le vocali e usare suoni che neanche un concerto heavy metal farebbe suoi. Quattordici partite giusto per dire di essere stato il primo e poi tornare a fare il giramondo. Sempre con l’idea che il calcio non è tutto.
E allora si spiega perché i brasiliani hanno vinto più degli islandesi. Gudmundsson, che voleva essere presidente dell’Islanda, diventa ministro dell’Industria del suo Paese. Cose che Giaccherini se le sogna. Per gli islandesi è sempre il più bravo, uno da ricordare. Anche quando finisce invischiato in uno scandalo di mazzette e deve dimettersi. Si ricicla come ambasciatore in Francia e allora deve ammettere che anche il pallone è servito a qualcosa. Muore nel 1994, di lui è rimasto un pub che si chiama Hvita Perlan, la Perla Bianca, come lo chiamavano. Il Pelè dei fiordi.
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