Tom Rosati è l’uomo delle tre promozioni del Pescara
Giu 28, 2023

“Papà ha lavorato fino alla fine, quando già sapeva di stare male”. Barbara Rosati è la prima dei quattro figli di Tom, l’indimenticabile allenatore biancazzurro che nel 1972 prese il Pescara dalla quarta serie regalando alla città due promozioni di seguito fino alla B e una terza, ancora dalla C alla B, nel campionato 1982-’83 che lo fece entrare nel mito.

Tom Rosati era il sergente di ferro capace, quando era già stato incoronato mago delle promozioni a Salerno e Caserta, di portare in ritiro una squadra con appena otto calciatori e senza neanche le scarpette con cui scendere in campo, di comprarle lui stesso con una cambiale alla Pantofola d’oro e da lì riportare il Pescara in B dopo 24 anni di bassifondi (dal 1949) e proiettarlo in alto in alto. Complici talenti come Zucchini, Nobili, Repetto, Tovalieri, Rebonato o Filippo Galli che Tom Rosati, ruvido e genuino (celebre lo schiaffo a Cozzella che si fece cacciare per una reazione all’arbitro) ha saputo riconoscere e portare a Pescara molto prima di altri.

Barbara e Arianna, quando è morto vostro padre avevate 19 e 15 anni. Com’è stata la vita accanto a lui?

“Non c’era mai. Oltre a Pescara, che ha sempre messo al primo posto, ha allenato in giro per l’Italia. Lo vedevamo di solito il lunedì mattina, lo incontravamo in bagno, prima di andare a scuola”.

Tom Rosati allenatore del Chieti
Ai tempi della Salernitana

E quando perdeva?

“A casa c’era il fuggi fuggi generale, silenzio totale. Al massimo, se ti affacciavi in cucina la domenica sera mentre guardava la televisione ti poteva dire ‘fammi un bicchiere di latte’. Sempre il latte beveva, ‘perché pulisce i polmoni’. Ma durante le partite era capace di farsi fuori tre pacchetti interi di Muratti. Altro che latte”.

Andavate allo stadio?

“Ci siamo andati fino alla domenica in cui presero a sassate la macchina all’uscita dello stadio, dopo una sconfitta. Eravamo piccole, papà alla guida della Mercedes, un gruppo di tifosi si mise davanti e gli altri a tirare le pietre, gli sputi. Era l’ultimo anno di serie B. Tornammo a casa stravolti e da quella volta non andammo più allo stadio”.

Teramo-Pescara nel campionato 1972-’73
Il Pescara 1975-’76

Come prendeva le critiche?

“Ci stava male, ma è sempre andato avanti per la sua strada. Come quando gli spedirono una pallottola a casa. ‘Se non fai giocare quel giocatore ti spariamo in panchina’. Lui cadeva nel mutismo, ma non si piegava. La verità è che papà non andava d’accordo con tutti, neanche con i vari dirigenti che si sono succeduti. Per lui era o bianco o nero, non sapeva fingere”.

Domenico Rosati detto “Tom”

Un aneddoto.

“Papà aveva il mare nel cuore. Figlio di pescatori, aveva iniziato a lavorare al porto di San Benedetto, la sua città, a 11-12 anni, faceva lo scaricatore. A Francavilla, dove andavamo al mare all’allora stabilimento Roberto, si era preso una barchetta minuscola, un guscio di noce con la vela. Un pomeriggio d’estate esce con questa barchetta e dopo due secondi si scatena il finimondo in mare. E lui non rientrava, non si vedeva più. Ci allarmammo, piangevamo. E lui niente. A un certo punto ce lo vediamo arrivare a nuoto con la corda tra i denti che trascinava la barca verso riva. Questo era papà”.

La promozione del 1974

E come padre?

“Quando c’era, era molto severo. Se ci vedeva truccate, vatt’a lava’ sta faccia ci diceva”.

Tom Rosati è entrato a pieno titolo nella storia del Pescara

Siete tre femmine e un maschio, l’ultimo, Thomas, nato nel 1974. Il maschio lo voleva proprio?

“Lo voleva proprio, l’ha chiamato come lui, anche se in realtà papà si chiamava Domenico”.

Perché lo chiamavano Tom?

“Da quello che racconta mamma, risale a quando era ragazzino. Lui era del 1929, da bambino giocava a pallone con gli americani, che lo chiamavano Dom. Da lì Tom”.

Il Pescara 1982-’83, promosso in Serie B

Che infanzia ha avuto?

“Poverissima, è partito da sottozero. Forse ha fatto fino alla terza elementare. Era il secondo di sei figli, quattro maschi e due femmine. Tra questi anche Marino, detto l’americano perchè scappò in America per non fare il servizio militare e poi al suo ritorno fu arrestato alla stazione. E Franco, molto più piccolo di papà, che ha giocato anche nel Pescara e che sua madre Elvira affidò sempre a papà anche in punto di morte. Papà stravedeva per la madre e lei per lui, era il suo punto di riferimento”.

E come riuscì a entrare nel calcio, approdando tra le riserve dell’Inter, nel 1950, prima di arrivare, dopo giri vari, alla Sambenedettese e poi al Chieti dove chiuse la carriera da giocatore nel 1962?

“Ha sempre giocato a pallone. Fu notato verso i 16 anni da alcune squadre della zona e iniziò. Ma alla fine si fermò a Chieti, dove conobbe nostra madre, teatina doc, e dove si sposarono nel 1962, lui 33 anni e lei 24. Papà fece di tutto per farla spostare da Chieti e alla fine, dopo 15 anni riuscì a finire il suo sogno, la casa a Francavilla. E ci trasferimmo lì”.

La “rosa” del Pescara 1983-’84

Ma a Pescara venivate?

“Quasi mai. Noi abbiamo vissuto sempre in maniera separata dalla sua carriera. Aveva comprato una casa a piazza Salotto, perché papà amava Pescara, i pescaresi e tutto l’ambiente, ma mamma non volle andare ad abitarci perché era un piano alto e aveva paura per noi bambini”.

A scuola che vi dicevano, come eravate considerati?

“Erano altri tempi, non c’erano gli ingaggi di oggi, non ci siamo mai sentite figlie di un personaggio”.

Però lo era.

“Sì, oggi diciamo che è così, ma se lo sono scordati un po’ tutti. Dei giocatori di allora solo Filippo Galli lo nomina ogni volta che gli chiedono dei suoi inizi. E Tovalieri una volta mi raccontò che se non era per papà che lo andava a prendere in camera dopo le sue nottate nei locali, e lo metteva sotto la doccia per farlo svegliare, non avrebbe fatto il calciatore. Per il resto silenzio assoluto. Dopo il funerale con il vescovo, le bandiere e i vessilli sono spariti tutti”.

Come sono stati questi anni senza di lui?

“Durissimi. Mia madre, casalinga, si è ritrovata all’improvviso sola con quattro figli, di cui solo una maggiorenne e senza sapere come gestire la situazione finanziaria che aveva lasciato papà per essersi fidato troppo di alcune persone. Per pagare quei debiti, accettò di andare ad allenare a Palermo anche l’anno che ha scoperto la malattia, andava a farsi le terapie a giorni alterni. Ma è morto nel giro di un anno e in solitudine. Dopo abbiamo venduto tutto quello che abbiamo potuto, nessuno ci ha dato una mano per lavorare. Porte chiuse, tutti spariti, anche chi stava dietro a papà dalla mattina alla sera per un biglietto”.

Simona De Lonardis

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