“A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza”.
(F. Dostoevskij)
Chi si sorprende lo fa solo perchè non conosce il calcio tra gli slavi del sud. Il derby eterno di Belgrado non è una partita come le altre: Stella Rossa e Partizan si odiano, da sempre. E l’anima slava è sempre quella, sia tra le pagine di Tolstoj che nelle strade di Belgrado: la vita è un bicchierino di vodka da schiantare dritto nelle budella. Il derby ce lo racconta Gianni Vasso.
La storia del calcio slavo risente, come accade ad ogni latitudine quando si parla di uomini che prendono a pedate un pallone, dello spirito del tempo e della cultura popolare. Tra Partizan e Crvena Zvezda è sempre corso l’odio più genuino. In tema di insulti, era l’eterna lotta tra i grobari cioè i becchini, a causa delle divise bianconere della squadra del Partizan contro i Cigani, gli zingari, della Stella Rossa che da sempre seduce i cuori della folta comunità rom locale. In tema di autodefinizione, però, i sostenitori del Partizan hanno mantenuto l’epiteto mortifero affibbiato loro dai rivali che, invece, si definiscono delije, concetto che in italiano sarebbe perfettamente traducibile solo rispolverando le guerre lessicali del Ventennio con “balilla”, cioè giovane forte, coraggioso e patriota. Nei regimi socialisti, come era la Jugoslavia di Tito, ogni squadra aveva un riferimento istituzionale. Non si può, perciò, immaginare una rivalità più accesa di quella tra l’esercito (Partizan) e la polizia (Stella Rossa).
Rivalità politica, innanzitutto. La politica c’entra sempre. Anche oggi, con una situazione esplosiva dovuta alle mire occidentali sui Balcani e al rapporto, mai reciso se non nella parentesi Tito (che addirittura si permise il lusso, nell’intento di unificare culturalmente il Paese di nominare il croato Franjo Tudjiman presidente del Partizan), con Santa Madre Russia. Pure ieri quando le frange ultrà recitarono un ruolo importante nella guerra succeduta alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. La “Tigre” Arkan, per esempio, capo storico del tifo delije. Come oggi lo è Ivan Bogdanov.
Il calcio slavo è fenomeno politico e di popolo. Al calcio è legata una grandissima parte della storia recente balcanica. Le tappe fondamentali e drammatiche degli ultimi decenni sono indissolubilmente legate a partite di calcio. A cominciare dal 1952. A Tampere, in Finlandia. La selezione olimpica jugoslava affronta l’Urss. Ai calciatori sovietici (uno squadrone) Stalin affida una sola consegna: vincere. Umiliare i “traditori” slavi, punire l’arroganza del maresciallo Tito che nel ’49 ha rotto con Mosca. Ma i plavi prendono il controllo mentale dell’incontro: 5 a 1. Hanno fatto i conti senza Bobrov, giunonico delantero sovietico, che scaccia la Siberia in un glorioso secondo tempo: 5 a 5. Replay ma senza storia, gli slavi vincono 3 a 1 e al poligono di Karlovac esplodono salve d’artiglieria per celebrare la vittoria più dolce.
Maggio, 1990. Giocano, a Zagabria, la locale Dinamo contro la Stella Rossa. In palio c’è lo scudetto. Ma non interessa a nessuno. La Croazia dell’ex presidente del Partizan, Tudjiman, vuole staccarsi da Belgrado. I delije arrivano allo stadio Maksimir e si scatenano. Dall’altra parte, però, ci sono i BBB e gli ultrà croati che non sono proprio gli ultimi arrivati. La polizia, serba, carica loro. I BBB sfondano le recinzioni e si riversano in campo per affrontare i rivali di Belgrado. Lì e allora cambiò la geografia degli slavi del Sud. L’immagine del giorno è quella di un giovanissimo Zvonimir Boban, con indosso la casacca numero 10 della Dinamo, che prende a calci un poliziotto impegnato a malmenare i “suoi” tifosi. Boban, poi, verrà portato in salvo da dirigenti e sostenitori croati. Sarà squalificato per nove mesi e fuggirà a Bari prima di approdare al Milan.