«Vi dichiaro dunque marito e moglie». Commozione? Non troppa. Quando alla fine del Settecento si sposava un piemontese più che altro eran felicitazioni. Quella volta però andò meglio del solito, perché quello non era un matrimonio, era un casamiento, dal momento che lei, la sposa, era una spagnola e, con tanto di mantilla, si sposava in Spagna. Allora tutto sotto controllo. Non troppo. Come hanno rievocato Federico Buffa e Carlo Pizzigoni.
Il piemontese, Giovan Battista Crosa, aveva acquistato dei terreni ad oriente del grande Rio de La Plata, un fiume che anche unendo il Po e il Manzanarre non se ne faceva la metà per ampiezza. Come sempre gli europei quando arrivavano da quelli parti (ri) battezzavano le terre degli indios con i toponimi dei luoghi da dove provenivano e siccome i Crosa venivan da Pinerolo, quel gran latifondo a 15 km da dove il grande rio ed il mare si confondono, venne chiamato così, Pinerolo. Giusto il ritocco per adattare la pronuncia piemontese del Settecento al castigliano del luogo che li avrebbe ospitati per sempre. Per le popolazioni che occupavano la Banda Oriental, l’Uruguay sarebbe nato più tardi con la fattiva collaborazione di un nizzardo piuttosto noto anche da noi, suonava più o meno così: Peñarol. Quando Giuseppe Garibaldi fece il suo dovere per meritarsi l’epiteto di Eroe dei Due Mondi, ecco che quelle terre erano già inglobate nel nuovo stato, la Republica Oriental de Uruguay. Uno stato che, un secolo dopo la morte del Giuanèn (1790), manteneva quello spirito intraprendente e dinamico.
Materialmente, era necessario un supporto: giunse d’oltre mare. Gli inglesi erano specializzati nella costruzione di ferrovie, e scelsero proprio le terre di Peñarol per organizzare l’inizio dei lavori. Diciassette ettari dove si sarebbero edificate le prime fabbriche e di conseguenza sarebbe nato un villaggio che gli inglesi avrebbero voluto ribattezzare New Manchester. Escluso. La comunità italiana non l’avrebbe mai permesso. Restava Peñarol. Nelle non frequenti pause lavorative, i tecnici e gli operai specializzati che avevano attraversato l’Oceano aprivano le valigie e mostravano altri oggetti. Spuntò un pallone, e cambiò per sempre la storia dell’Uruguay. Il gioco non sembrava troppo complicato, a tutti quegli emigranti latini giunti alle foce del grande fiume per iniziare una nuova vita. Appassionava tutti. E tanti furono immediatamente coinvolti nella nascita di una associazione sportiva che prese il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club (CURCC).
I 18 soci di origine inglese e 45 «nuovi uruguayani» controfirmarono il documento che permetteva la nascita della prima associazione calcistica del Paese. Mista. Perché nello stesso anno, un gruppo di inglesi aveva creato la Albion, il cui esclusivo accesso era riservato ai britannici. Nel maggio del 1892 si sarebbero sfidati: vinse il CURCC, maglia nera-oro per rispettare i colori delle Railway dei sudditi di Re Giorgio V, quelli che arrivavano da Villa Peñarol, che già da subito fu il nome con cui tutti identificavano la squadra. Ancora oggi, dopo 52 titoli nazionali, 5 coppe Libertadores, 3 coppe intercontinentali (scalpi eccellenti: il Benfica di Eusebio e il Reai Madrid di Gento) Peñarol è un nome che è di diritto nelle prime pagine della storia del football, quel gioco che come ben racconta l’adagio ha una madre, l’Inghilterra e un papà, l’Uruguay. Nei college inglesi ha iniziato a rotolare la palla, ma il calcio è diventata una passione popolare prima di tutto nella zona meridionale del LatinoAmerica e, prima di ogni altro luogo, in Uruguay, non a caso sede del primo Mondiale della storia del gioco.
Peñarol è oggi un quartiere di Montevideo. Il Club Atletico Peñarol è tornato a vivere le sue partite casalinghe poco fuori dalla città, nel nuovo stadio che ha aperto i battenti nel 2016 e che si chiama «Campeón del Siglo», come ormai tutta la hinchada aurinegra chiama la propria squadra, nel 2009 celebrata dalla Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (IFFHS) come il club del XX secolo in Sudamerica. A quelle latitudini nascono sempre storie dove c’è sempre un momento in cui devi deglutire forzatamente e poi respirare profondo. Sono pieni di commozione quel ristretto gruppo di dirigenti e tifosi del Peñarol che hanno fatto un viaggio in Italia, per visitare la Tierra Sagrada, la città dove, in qualche modo, tutto ebbe inizio. La scoperta della segnaletica autostradale di quel nome ha decuplicato il loro battito cardiaco. Poi quel cartello, decisamente anonimo e malfatto, ma così carico di significato… Campo bianco, scritta in nero: PINEROLO.
Città storica del ciclismo, di Giro e Tour de France, con i suoi quattro colli e la partenza da Cuneo, Pinerolo evoca, dall’altra parte dell’Oceano, sulla riva del Rio de La Pòata, oggi un po’ più catramato di quello che aveva accolto il giovane Crosa, un trasporto emotivo che non si riesce a spiegare. Lo scopo del viaggio: raccogliere un po’ di polvere della Tierra Sagrada, come loro chiamano Pinerolo. «Questo terriccio è ospitato nel nuovo stadio, è in qualche modo parte della nostra storia» ha raccontato Nacho, capo-spedizione della comitiva. «Era ormai molto tempo che non possedevamo più una casa. Il lieto evento, è stato celebrato con immagini simboliche forti». Una sacralità laica che può apparire forse ingenua per alcuni atei del football, ma in Sudamerica e in particolare in Uruguay si vive il calcio in una maniera totale.
E con la stessa passione delle origini. Fin da quando, giovanissimi, i ragazzi dei quartieri montevideani di Ciudad Vieja, Centro, Cordón, La Aguada prendevano un treno per andare a vedere il CURCC, a Villa Peñarol. La locomotora partiva la domenica all’una e mezza dalla Stazione Centrale e tornava a fine match in città. Prima sorpresi poi sempre più preoccupati, alla fine decisamente seccati, i gestori della compagnia ferroviaria inglese si resero conto che lo sport che credevano di avere inventato, era vissuto in maniera un po’ differente, oltre l’Atlantico.
Il Quiet, please è giusto rimasto a Wimbledon. A inizio secolo il treno Montevideo-Villa Peňarol era tutto un vociare. Una partecipazione chiassosa, ma non solo. Su quel treno, l’euforia che si respirava attorno a questo fantastico gioco era unica, e serviva a mettere da parte la fatica del lavoro, la nostalgia di una famiglia, di un affetto lontano, in Italia. Quel gioco ti trasportava in un’altra dimensione, dove non eri mai solo, ma sempre abbracciato a un tuo compagno. Che è poi la magia del calcio, anzi, la magia del futbol.
Visto che il modo di intendere questo magico innamoramento verso il gioco lo hanno sperimentato per primi loro. Forse a cominciare da quei viaggi in treno. Si accendeva di gioia anche Giuseppe Scarone, emigrato da Savona fino a Montevideo, dove aveva trovato lavoro proprio nelle ferrovie. E subito era diventato tifoso del CURCC- Peñarol, amore prontamente trasmesso ai figli, che lo avevano seguito anche quando il campo di gioco era cambiato.
I treni cominciavano a danneggiarsi con troppa frequenza. Evidentemente, reggevano poco i sommovimenti provocati da salti di quelli che sono i primi tifosi della storia. Dal Big Ben avevano detto stop.
Mario Bocchio