Il Nacional sul tetto del mondo
Dic 9, 2020

28 novembre 1980, Roma, Hotel Excelsior. In via Veneto, l’epicentro, anni prima, della Dolcevita, si incontrano in occasione di un meeting Fifa i rappresentanti di Nottingham Forest e Nacional di Montevideo, rispettivamente campioni d’Europa e del Sudamerica, quelli di Uefa e Conmebol e quelli di West Nally, azienda britannica di marketing sportivo. Sul tavolo, una proposta per rivitalizzare la Coppa Intercontinentale, ormai sull’orlo del collasso dopo i rifiuti e i ritiri di più club di giocarla, a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta. A patrocinare questo nuovo progetto la casa automobilistica giapponese Toyota, che vuole trasformare il classico confronto andata-ritorno in un match unico da giocarsi ogni anno a Tokyo, associando al trofeo tradizionale, una sua coppa, la Toyota Cup, appunto. Un’idea che coniuga tradizione e innovazione e che viene accettata subito dalle confederazioni europea e sudamericana, ma soprattutto dai club in questione. E ragioni per rifiutare ce ne sono poche. La Toyota, che incassa il denaro della cessione dei diritti tv e dei biglietti, versa infatti al Forest e al Nacional un corposo ingaggio, oltre a rimborsare a inglesi e uruguaiani le spese di trasferta e soggiorno. In più i giapponesi sottoscrivono accordi con Uefa e Nottingham Forest per mettersi al riparo, con pesanti penali, da un eventuale ritiro dei club europei, come era successo nel recente passato.

Gli uruguaiani del Nacional

Con grande anticipo, si sceglie l’arbitro dell’incontro. Si tratta del quasi 47enne, Abraham Klein, nato a Timișoara ma con passaporto d’Israele, il paese in cui lui, ebreo, è emigrato dopo esser scampato all’Olocausto e dove ha cominciato per caso ad arbitrare (raccontò di aver debuttato con il fischietto in bocca per l’infortunio del suo sarto). Ha diretto due Mondiali e ha una solida esperienza internazionale.
Sistemati i dettagli, è tutto pronto per ricominciare. Sotto l’egida della casa automobilistica nipponica, i campioni di Europa e Sudamerica, si sfideranno ogni anno per eleggere la squadra campione del mondo. Il primo appuntamento è fissato per l’11 febbraio 1981 allo stadio Olimpico di Tokyo, sede dei Giochi del 1964. Nel febbraio del 1981, l’Uruguay viveva ancora l’incubo della dittatura militare che, messa in atto al principio degli anni Settanta, iniziava a mostrare il fiato corto. Il regime mostrava le prime crepe e il mancato successo del plebiscito del novembre del 1980, promosso dai generali, era un chiaro segnale che l’Uruguay stava iniziando a prendere un percorso finalmente differente.
Si iniziava a parlare di Dicta-blanda in quei giorni, nascevano speranze e desideri di un futuro diverso. Forse anche spinti da questo nuovo vento, i tifosi del Nacional avevano partecipato in massa alla trasferta per la finale di andata della Copa Libertadores, giocata al Beira Rio di Porto Alegre contro l’Internacional del grande Paulo Roberto Falcão, che dopo la gara di Montevideo avrebbe accettato il trasferimento alla Roma. La strada che separa la capitale uruguaya e quella del Rio Grande do Sul, aveva tre soli colori, il bianco-blu-rosso del Nacional: si parla di oltre venticinquemila persone in marcia verso il Brasile, il maggior esodo di sempre al seguito di un club charrúa. Il pareggio senza reti, favorì il club della Republica Oriental, che alzò una settimana dopo il maggior trofeo continentale grazie a un gol del solito Waldemar Victorino.

Con la sola eccezione di Hugo De León, trasferito al Grêmio, in Brasile, dopo il successo in Libertadores tutta la squadra venne confermata, con la conferma, ovvia, sulla panchina di Juan Martín Mugica. Egli aveva vinto, da giocatore, la Libertadores nel ’71 con il Nacional, la prima del Bolso, ed era stato chiamato a reggere il club a inizio 1980, dopo il licenziamento del tecnico argentino Pedro Dellacha (personaggio unico: secondo Pelé, il marcatore più duro e cattivo che abbia mai incontrato). Mugica assunse l’incarico ad interim, e agì col sostegno del professor Esteban Gesto, preparatore fisico di rara importanza, una specie di Rui Faria (l’assistente storico di José Mourinho) ante litteram.

Lo status di provvisorietà si risolse presto in una conferma: la coppia Mugica-Gesto sarebbe rimasta per sempre nella storia del club. Squadra solida con linea dietro diretta da Cacho Blanco davanti al portiere della Selección Celeste, Rodolfo Rodríguez, in mezzo Arsenio Luzardo, celeberrimo il suo calcio potente, e Víctor Espárrago in appoggio alla formidabile delantera formata da Waldemar Victorino, Alberto Bica e Cascarilla, al secolo Julio César Morales.

Il Nottingham Forest

Gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, per l’Inghilterra e per il football inglese, sono cruciali. Anni, nel bene e nel male, di riforma e rivoluzione. Dal 1970, il programma televisivo “Match of the day” porta nelle case il calcio e anche l’indignazione per la violenza che vi sta attorno, spesso esageratamente cavalcata dai notiziari. Ma la morte di un tifoso del Bolton nel 1974, la prima certamente legata a uno scontro tra gruppi di hooligans, segna l’inizio di una fase di studio e repressione, che terminerà nel 1989 con il Football Spectators Act, conseguenza del Taylor Report dello stesso anno. Margaret Thatcher, poco prima della caduta del suo ultimo governo, cambia così il modo di vivere il football in Inghilterra. Lo fa nello stesso periodo in cui un tecnico di Middlesbrough cambia il modo di praticarlo. Brian Clough è un genio, il Nottingham Forest la perfetta incarnazione della sua idea di calcio, poco o per niente britannica. Pochi palloni alti, perché “se Dio avesse voluto farci giocare a calcio tra le nuvole, avrebbe dovuto mettere l’erba lì su”. E il suo Nottingham, subito dopo il periodo d’oro del Bayern Monaco, dà inizio al dominio inglese in Europa, poi continuato da Aston Villa e Liverpool.
Una squadra fatta di uomini fedeli al tecnico, prima che di grandi giocatori. Come Viv Anderson, il primo giocatore di colore a vestire la maglia dell’Inghilterra: discriminato e insultato dai tifosi avversari, difeso e coccolato da Clough.


O come John Robertson, centrocampista scozzese di Glasgow che il tecnico considera un “Picasso del calcio”, capace di “crossare con la precisione di un giocatore di biliardo”.
Con una sua rete, il 28 maggio 1980 a Madrid, i Reds vincono la finale di Coppa dei Campioni (la seconda consecutiva) contro l’Amburgo e si guadagnano il pass per la prima Toyota Cup.

Un fotogramma della finalissima di Tokyo

Credo che sarà una partita alla pari, anche se il fatto di essere arrivati solo due giorni prima della partita è un handicap per noi.” Parla in maniera chiara Brian Clough, lunedì 9 febbraio, appena atterrato a Tokyo con il suo Nottingham Forest. Due giorni prima, a Maine Road, la sua squadra è stata impegnata contro il Manchester City e quindi non ha potuto raggiungere la capitale giapponese prima del lunedì. A differenza del Nacional, che già da una settimana si sta allenando al National Stadium. Eppure i bookmakers assegnano il favore del pronostico ai britannici, che si ritrovano sotto dopo soli dieci minuti, per merito di Victorino, che segna su assist da destra di José Hermes Moreira. Il Forest subisce per tutta la prima parte l’azione degli uruguaiani, a cui vengono annullate due reti, prima a Luzardo, poi a inizio ripresa a Bica. Gli inglesi prendono il controllo della gara nell’ultima mezz’ora, gli uruguaiani non riescono più a ripartire e rimangono bassi, difendendosi con quasi la totalità degli effettivi in area. Il portiere sudamericano Rodolfo Rodríguez diventa decisivo, e il Nacional può tornare a rialzare la Coppa Intercontinentale. La storia della sempiterna sfida calcistica tra Europa e Sudamerica, ricomincia.

L’ hombre del partido, Waldemar Victorino

La Toyota aveva voluto anche l’introduzione l’elezione del “Man of the Match”: l’uomo decisivo della gara sarebbe stato eletto a fine gara dai giornalisti giapponesi presenti allo stadio. Il nuovo sponsor metteva in palio una autovettura che sarebbe stata regalata, chiavi in mano, a fine gara all’eletto, una decisione che ha immediatamente avuto un impatto notevole dal punto di vista del marketing. La prima Toyota Celica in palio sarebbe andata all’unico marcatore della partita, Victorino. Vinse la sfida con l’altro numero 9 della gara, Trevor Francis. Quest’ultimo, il giustiziere del Malmö nella prima finale di Coppa dei Campioni del Nottingham Forest, dopo essere passato dal Manchester City e aver vestito la maglia dell’Inghilterra nel Mundial ‘82, si sarebbe trasferito alla Sampdoria. Nel nostro campionato, avrebbe ritrovato proprio Victorino, acquistato dal Cagliari nella stessa estate: in Serie A la situazione si capovolse e la maggior parte degli elogi toccarono all’inglese. Per il centravanti charrúa l’Italia, in cui durò solo una stagione, molto deludente, con dieci presenze e nessun gol, significò l’inizio del declino.

Il gol di Victorino

Il suo nome rimane però indimenticabile proprio perché legato a quella stagione di trionfi di inizio anni Ottanta, non solo con il Nacional. Victorino segnò un’altra rete decisiva, stavolta indossando la Celeste dell’Uruguay: il gol che decise la finale del Mundialito contro il Brasile, sceso allo Stadio Centenario per “vendicare”, in qualche maniera, il Maracanazo.

Pochi secondi dopo la rete dell’attaccante, Victor Hugo Morales, celeberrimo e inarrivabile relator, gridò alla radio una di quelle frasi sue, che rimarranno per sempre nella storia del fútbol. Rivolgendosi all’immortale capitano del successo del 1950, Obdulio Varela, declamò: “Quédate tranquilo Obdulio, los muchachos no te van a dejar cambiar la historia, Uruguay 2 Brasil 1, quédate tranquilo Obdulio te digo”. Stai tranquillo Obdulio, i ragazzi non permetteranno che la storia cambi. E in Uruguay, la Storia del calcio, si scrive sempre con la S maiuscola.

Articolo a cura di Roberto Brambilla, Carlo Pizzigoni e Davide Zanelli- tratto da http://www.mondofutbol.com

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