Ci sono giocatori a cui basta qualche buona prestazione nelle partite che contano per prendersi le prime pagine dei giornali e per campare per gran parte della carriera con ingaggi faraonici e sproporzionati. Spesso è una questione di appeal, di capacità di scegliere il procuratore giusto, di colpire nel cuore dei giornalisti o di finalizzare l’occasione che conta. Ci sono altri giocatori che pur essendo professionisti stimati non riescono mai a fare quel passo in più che consentirebbe loro di entrare nell’Olimpo dei grandissimi.
E non perché non siano abbastanza bravi, tutt’altro.. nessuno ne mette in dubbio il valore.. semplicemente non sono abbastanza appariscenti o sono capitati nella squadra sbagliata nel momento sbagliato. Oppure sono semplicemente anti divi, personaggi che non fanno mai notizia perché non hanno una vita mondana eccessivamente movimentata o perché nelle interviste non hanno mai dichiarazioni sensazionali da fare. Una storia emblematica da questo punto di vista è quella di Rodrigo Palacio da Bahia Blanca, città di trecentomila abitanti, a cinquecento chilometri a sud di Buenos Aires.
Rodrigo è figlio di Josè Ramon, bandiera dell’Olimpo Bahia e soprannominato “El Gallego” per le sue origini spagnole, trasferitosi con la moglie in Argentina dove dà i natali al figlio. Madre natura non regala a Palacio Junior un fisico pazzesco e un talento fuori dal comune ma grazie alla sua duttilità e all’intelligenza tattica riesce compiere la scalata che dalle giovanili del Bahia Blanca lo porta all’Huracan, al Banfield e infine al Boca Juniors.
L’arrivo nella compagine di Buenos Aires è il massimo che si possa raggiungere in Argentina a livello di club, poiché si tratta della squadra sostenuta “dalla metà più uno del paese”. Il Boca Juniors è la formazione del popolo, fondata nel 1905 nel quartiere della Boca, abitato prevalentemente da immigrati genovesi. Dal Boca Juniors sono partiti alcuni tra i più grandi giocatori della storia del calcio argentino come Diego Armando Maradona, Gabriel Omar Batistuta e Juan Roman Riquelme, che nel quartiere è venerato come un Dio.
Il clima che si respira a La Bombonera è uno dei più caldi di tutto il Sudamerica, con le vibrazioni che si sentono in tutto lo stadio quando i tifosi battono i piedi a ritmo e non a caso si dice che “La Bombonera no tiembra. Late” (La Bombonera non trema. Batte). Il Boca ha per tradizione giocatori forti, di temperamento, pronti a scaldarsi soprattutto nel Superclasico contro gli odiati rivali del River Plate. Palacio arriva al Boca Juniors nel 2005, a 23 anni, un anno dopo la fine del ciclo vincente di Carlos Bianchi. Il buon Rodrigo non sembra uno da Boca, è una persona tranquilla che ama frequentare i suoi concittadini cestisti Manu Ginobli e Bruno Cerella.
Con il papà calciatore, nel Club Olimpo di Bahia Blanca
Il massimo della sua vita mondana è qualche cena fuori con la moglie Wendy, o qualche partita di basket di basso livello che lo appassiona come se fosse l’Nba. E’ uno che ama restare nell’ombra, Rodrigo, e fa quello che piace agli allenatori rendendosi utile in varie fasi del gioco. Palacio è uno senza fronzoli, che bada al sodo e come unico vezzo si tiene una lunga treccina sul retro del capo, a discapito dei capelli via via sempre più radi, che gli danno il soprannome di El Trenza o La Joya.
Al Boca nel 2005 non ci sono più le bandiere Carlos Tevez e Juan Roman Riquelme, andati a far fortuna in Europa, ma nonostante questo Palacio in quattro anni vince due Recopa, una Coppa Sudamericana, un campionato di Apertura, uno di Clausura e una Copa Libertadores. Le sue prestazioni vengono notate anche dal ct della nazionale argentina Pekerman che lo convoca per i Campionati Mondiali del 2006 in cui gioca uno spezzone nell’ininfluente match vinto per 2-1 contro la Costa d’Avorio. Negli anni al Boca Palacio si toglie lo sfizio di segnare un gol nella finale di Copa Libertadores del 2007 persa 4-2 contro il Milan e in attacco forma una coppia devastante con Martin Palermo, suo malgrado noto soprattutto per i tre rigori sbagliati in un Argentina-Brasile.
Nel 2009 arriva anche per lui il momento dell’approdo nel calcio europeo ma a differenza di altri suoi illustri connazionali, non viene acquistato da club di grido come il Barcellona o da una ricca squadra militante in Premier. Palacio finisce al Genoa, squadra di media classifica in Serie A e il suo acquisto resta come al solito nell’ombra nonostante egli abbia 27 anni e sia un giocatore piuttosto conosciuto.
Il Genoa di quel periodo è una squadra ambiziosa, pronta a migliorarsi e la punta argentina ad inizio stagione non è tra i titolari, complici anche una serie di problemi fisici. Palacio impiega un po’ di tempo ad ambientarsi nel calcio tattico della serie A e fatica a trovare la via del gol. Una volta che ci riesce però l’impatto è notevole e in tre stagioni realizza 35 gol diventando presto uno degli idoli del Marassi, con 19 reti nella sua ultima stagione in gialloblu. Si realizza così un altro paradosso nella carriera della punta di Bahia Blanca che senza titoloni sui giornali e paragoni fuori luogo riesce a guadagnarsi l’interesse di squadre più importanti. Nel 2012 viene infatti acquistato dall’Inter per un prezzo doppio rispetto a quello che era stato pagato dal Genoa al Boca Juniors nel 2009 e per il presidente Preziosi si tratta di un affare notevole, visto che ormai Palacio ha 30 anni. L’Inter non è più quella del Triplete di Mourinho ma è comunque uno dei club più titolati d’Italia ed è vogliosa di guadagnare nuovamente la vetta della classifica, con l’emergente Andrea Stramaccioni in panchina.
Finale mondiale: fuori Higuain e dentro Palacio
L’inizio, come di consueto, non è dei più facili con Palacio relegato in panchina complici i soliti problemi fisici e la concorrenza di Milito e Cassano. La punta argentina fa però di caparbietà virtù e riesce via via a conquistarsi un posto sempre più importanti nelle gerarchie dell’allenatore, divenendo presto titolare fisso e realizzando un gol importante nella vittoria dell’Inter allo Juventus Stadium (prima sconfitta dei bianconeri nel nuovo stadio). La stagione dei nerazzurri si rivela fallimentare ma Palacio è oramai imprescindibile per la sua duttilità tattica e diviene una delle colonne portanti anche della squadra allenata da Mazzarri nel 2013-’14. Anche la seconda stagione interista del Trenza è avara di soddisfazioni, con la squadra che vivacchia nella mediocrità generale ma Palacio dimostra grande impegno ricoprendo varie posizioni in campo e si toglie lo sfizio di decidere la stracittadina prenatalizia con uno straordinario colpo di tacco.
La gioia più grande arriva però a fine stagione quando, ad ormai 32 anni suonati, viene convocato per i Mondiali in Brasile rientrando nel giro della Selecion dopo diversi anni. La scelta in patria suscita diverse perplessità perché viene sacrificato Carlos Tevez, autore di una stagione strabiliante nella Juventus di Antonio Conte. L’Argentina del 2014 gira intorno a Lionel Messi che dopo aver vinto tutto con il Barcellona vuole redimersi anche in patria conquistando il titolo mondiale che gli manca per essere considerato a tutti gli effetti il miglior giocatore della storia del calcio. Il ct Sabella decide di puntare tutto sulla sua stella, non convocando Tevez e sacrificando giocatori del calibro di Lavezzi, Aguero ed Higuain come comprimari della “Pulce”. A differenza di altre formazioni stellari presentate nelle edizioni precedenti, l’Argentina gioca piuttosto male ma si dimostra concreta ed efficace, vincendo tutte le partite fino alla finale con un solo gol di scarto. Palacio si cala perfettamente nel ruolo e pur non partendo titolare si ritaglia il suo spazio subentrando dalla panchina. Da un suo pallone recuperato sulla tre quarti nasce il gol vittoria ai supplementari di Di Maria che consente di eliminare la Svizzera agli ottavi.
L’Albiceleste arriva così in finale da sfavorita contro la Germania, reduce dal roboante 1-7 contro i padroni di casa del Brasile. La finale è combattuta e bruttina, con gli argentini che si fanno preferire guidati da un monumentale Mascherano e vanno vicini al gol con una clamorosa occasione fallita da Higuain nel primo tempo. Il ct Sabella al 78’ decide di far entrare in campo Palacio, ma i tempi regolamentari terminano 0-0. Il match si mantiene equilibrato anche nell’extra time con le due squadre che sfiorano il gol in diverse circostanze. Nel secondo tempo supplementare Aguero imbecca proprio Palacio che si ritrova solo davanti al portiere, superando la marcatura dei due centrali tedeschi. E’ l’occasione della redenzione, a 32 anni, con il pallone più importante della sua carriera sui suoi piedi. Avesse segnato sarebbe stato ricordato e omaggiato per sempre. Molti giocatori più scarsi di lui sono diventate delle vere e proprie icone in patria, solo per avere fatto un gol, solo per avere avuto il merito di buttarla dentro con un tocco semplicissimo, soli davanti al portiere. Si pensi a Jorge Burruchaga, per esempio. Un buon giocatore, un onesto comprimario della Nazionale di Maradona del 1986 che grazie alla rete decisiva nella finale era diventato per un istante protagonista, perché per assurdo senza Burruchaga Maradona non sarebbe mai stato Maradona.. o forse, Maradona sarebbe stato un po’ meno Maradona.
Chissà se il buon Rodrigo ha pensato a tutto questo quando ha visto il portiere della Germania Neuer gettarsi incontro. Chissà se ha pensato a Messi, alle pagine dei giornali dedicate ai giocatori più scarsi di lui, a tutti i gol che aveva fatto che non erano stati considerati, all’onesta carriera di suo padre o alla sua treccina che sarebbe stata sicuramente tagliata per festeggiare la vittoria. Chissà perché ha pensato, Palacio, nel momento in cui il miglior portiere del mondo gli si è gettato incontro. Chissà perché non l’ha semplicemente piazzata. Avrebbe segnato, come ha fatto tantissime volte nella sua carriera. Facile immaginarsi i titoli dei giornali il giorno dopo: “Palacio porta in trionfo Messi” oppure “L’Argentina sul Palacio più alto del mondo” eccetera, eccetera, eccetera. Chissà cosa è successo nella sua testa.. fatto sta.. la mera cronaca racconta di un improbabile pallonetto a scavalcare Neuer e la palla che esce, nemmeno di poco.
E’ banale e risaputo che la fortuna è cieca e la sfiga ci vede bene. Se fosse finita 0-0 e l’ Argentina avesse vinto ai rigori nessuno si sarebbe ricordato di quell’errore. Magari al bar, a fine carriera, qualcuno dopo diverse birre gli avrebbe chiesto “Oh Rodrigo, ma quella volta perché non l’hai piazzata e hai fatto quell’insulso pallonetto?”. Lui avrebbe glissato con un sorriso e se ne sarebbe andato via sorseggiando una spuma. Perché se fosse finita 0-0 ai rigori lui il suo pezzettino l’avrebbe fatto, sarebbe andato sul dischetto e molto probabilmente avrebbe segnato. Perché Palacio è uno così, uno che ci mette un po’, ma alla fine ottiene quello che vuole e fa quello che deve. E in quel momento non avrebbe sbagliato, l’avrebbe piazzata come suo solito e l’Argentina avrebbe vinto i Mondiali perché qualche tedesco avrebbe sicuramente fallito. Ma si sa, la vita è beffarda e ama prendersi gioco dei nostri limiti.
Al 113’ Schurle serve un assist d’oro a Goetze. Gol. 1-0. Hai voglia a rimontare, hai voglia a cercare la tua redenzione in soli sette minuti, quando sei abituato a metterci un po’ per ambientarti. Hai voglia a giustificarti quando non sei un divo e sei abituato al profilo basso. Triplice fischio, Germania campione, Messi esce a testa bassa con l’eterna spada di Damocle che lo riduce ad essere quello che “è un fenomeno solo con il Barcellona”. E parte ovviamente la solita e banale gogna mediatica. “Il gol che ha sbagliato Palacio lo facevo anch’io” “Se ci fosse stato Tevez..” “Palacio non è un campione..” eccetera, eccetera, eccetera.. e il rammarico…“perché Rodrigo è uno che si sacrifica” “perché Palacio è un professionista esemplare” “perché uno come lui è un esempio per i giovani”. Già. Ma uno come lui i titoli dei giornali non li conquista mai. Nemmeno se ha il cognome adatto anche per il più sprovveduto dei titolisti. Nemmeno se è solo davanti al portiere nel momento decisivo di una finale dei Mondiali.
Valerio Zoppellaro