“Ragazzi, abbiamo detto di giocare la palla veloce. Loro non sono al nostro livello di preparazione. Quindi correte e fate correre la palla”. “Mister, c’è un problema: guardi che manca Zoltan”. “Finiamola con questi scherzi e queste cazzate”. “Guardi che non c’è per davvero”.
E’ il torneo Carranza, nella città di Cadice, che inizia sabato 25 agosto 1979 . Ci sono loro , i campioni d’Ungheria dell’Ujpesti, i padroni di casa , il Barcellona e il Flamengo. Ma a Zoltan Toth il torneo serve solo per realizzare il suo piano. Lo cercano nella sua camera d’albergo. Forse è rimasto a dormire: niente. “Si sarà perso all’entrata dello stadio, con tutti quei cancelli”.
Nessuno ne sa nulla. Aveva fatto shopping coi compagni in città. Poi ha salutato tutti: “Ci vediamo in albergo” e non l’hanno visto più. L’hanno cercato dentro lo stadio. Poi fuori. Ma non c’è. E lo cerca anche il KGB ungherese. Zoltan non parla. Non può. Come quando si fa un sogno e non si riesce a smettere. Lo cercano tutti. La polizia interroga i suoi compagni. Non parla nessuno. Nemmeno il centrocampista Peter Schumann che si aspettava quella fuga. E sapeva. Mettono anche una foto sul giornale col suo nome, ma per fortuna sbagliano faccia.
Nella Nazionale ungherese
Forse Zoltan è scappato con una ragazza di Cadice. Forse l’hanno rapito i terroristi baschi . Lui intanto in qualche modo è arrivato alla stazione. Noleggia una macchina , sembra una Fiat. Sbarca a Cordoba. Sudato e con gli occhi sprofondati nella paura. Cerca di dormire sul sedile. Proprio non ce la fa. Poi raggiunge l’ambasciata americana a Madrid . Entra stravolto e chiede asilo politico .
L’Ujpesti intanto arriva in finale e trova il Flamengo: doppietta di Zico e si torna in Ungheria. Da quattro giorni nessuno ha notizie di Zoltan. E’ semplicemente sparito nel nulla. Il 4 settembre chiede e ottiene il visto per gli Stati Uniti .
Notizia di calciomercato: l’hanno ingaggiato gli Stoners della Pennsylvania, dove si è impegnato per lui Willie Ehrlich che è un rifugiato ungherese dei tempi della rivolta del ‘56. Ehrlich ha anche manovrato segretamente per far arrivare Zoltan sano e salvo negli States.
Riescono a intercettarlo al telefono. E Zoltan finalmente parla : “In Ungheria io non torno più”. Stop. “Non potevo fidarmi di nessuno . In albergo avevo chiesto la chiave del bagno e me l’avevano data: lì c’erano i passaporti. Anche se sapevo che avrei avuto subito il KGB alla calcagna. Sono passato da Madrid e due settimane dopo ero a New York. Poi ho avviato la mia pratica di asilo politico giurando davanti a un giudice i miei diritti e doveri. Era una città della Pennsylvania”.
La città si chiama Betlemme. “In realtà io pensavo alla fuga già da un anno, dal 1978. Ero appena stato convocato come terzo portiere del mondiale d’Argentina dietro Gujdar e Meszaros. Ma in un Ujpesti – Raba Eto , precisamente nel primo tempo, è finito tutto: su una palla strana, esco e mi scontro violentemente con Szabo. Avevo uno strappo al muscolo della coscia destra, ma volevo giocare. Volevo dimostrare di potercela fare. E continuavo a fare tutto con un muscolo quasi tumefatto”.
“Ho giocato finchè non sono stato costretto a fermarmi. Si sono depositati cristalli di calcio sull’osso principale e il muscolo non ha funzionato più. Neanche con le infiltrazioni. Mentre i miei compagni partivano per Buenos Aires, io sembravo alla fine della mia carriera”. Inizia nelle giovanili dell’Ujpesti: “I miei idoli erano portieri come Borbely, Szigeti, Rothermel e Szentmihalyi. E mio padre Gyorgy , che è stato un grande e non solo perché ha giocato in Nazionale. La prima generazione di portieri della nostra famiglia. Devo ringraziarlo. Se non fosse stato per lui, per l’assiduità dei suoi allenamenti, non sarei stato nemmeno calciatore. E poi mia madre era portiere per la squadra di pallamano di Csepel, sempre a Budapest”.
Una famiglia che sembra un monolite, ma che per il calcio rischia di spaccarsi: “Mio padre aveva giocato all’MTK Budapest e non voleva andassi all’Ujpesti. Ci rimase male. Non venne quasi mai a vedermi. Ma l’Ujpesti raccoglieva i giocatori più talentuosi : Fekete , Torocsik e altri. Nessun portiere cresciuto nelle giovanili dell’Ujpesti aveva mai giocato per la prima squadra. Le statistiche erano contro di me. Ho dovuto lavorare duro per avere il mio posto in squadra. Ma sapevo che con la fortuna e l’impegno, sarei arrivato”.
Un giorno, Zoltan viene convocato nella Nazionale C e parte per la Corea del Nord . Non lo sa, ma sta già preparando la fuga di Cadice: “Appena arrivati in Corea, siamo andati in albergo. Non potevamo rilasciare dichiarazioni. Dovevamo stare rinchiusi. Eppure non eravamo occidentali. La mia stanza era orrenda. E c’era anche il ritratto di Kim Il Sung . Senza pensarci troppo, l’ho coperto”.
Zoltan viene beccato e sospeso. E il quadro sconsacrato riprende aria. “Nel ’77 – ’78 abbiamo vinto il campionato ungherese . Per forza, avevamo gente come Sandor Zambo in mezzo, Fekete e Fazekas che segnavano a mitraglia. E’ stato incredibile non aver raggiunto una finale europea. Contro l’Atletico Bilbao ce l’avremmo fatta se l’arbitro non ci avesse annullato quel gol nei supplementari. Solo lui sa il motivo”.
Dopo l’infortunio, Zoltan capisce che l’Ungheria non è più un paese adatto a lui. E non lo è mai stato: “Non potevo giocare. E venni chiamato dall’esercito : dovevo prestare un anno di servizio militare. Non era tutto. L’esercito bloccò le mie cure, perchè un militare non può essere operato in un ospedale civile. E’ stato incredibile. Anche se molti fans mi sono stati vicino”. Zoltan prende un impegno con se stesso : tornare ad alti livelli e recuperare la maglia numero 1 . “Sono arrivato nella nazionale Olimpica e in quella maggiore. Con l’Ujpesti abbiamo rivinto il campionato. Ma soldi non se ne vedevano. Dovevo chiederli a mia madre. Non c’era modo di uscire da quel sistema. Mi sentivo come un burattino a teatro”.
“Dovevo andarmene. A maggio del ’79 finalmente finivo il mio servizio militare. E ho giocato con l’ Olimpica a Miskolc , la città di mia madre. E abbiamo battuto 3-0 la Romania. E’ stata una grande soddisfazione vincere ed eliminarli”.
L’approdo negli States è la realizzazione del sogno, ma non coincide con la fine della sofferenza: “Appena arrivato a New York, ero un immigrato con cinque dollari in tasca. Passavo davanti al Metropolitan Museum, ma non potevo entrare. E prima di lasciare l’Ungheria mi ero anche venduto la macchina”.
La federazione calcio ungherese chiede alla FIFA la squalifica di Zoltan per due anni . E la ottiene. E’ l’ultimo tentativo di quel mondo mummificato di condizionare la vita di Zoltan. Nel frattempo anche due nazionali rumeni come Satmareanu e Nastase scappano alla fine di due partite delle Coppe.
Zoltan viene richiesto dal Borussia Monchengladbach, dai Toronto Blizzard, ma non può neanche giocare per la squalifica. Gli resta quello indoor : “Ho lottato , ho fatto ricorso e la squalifica è stata ridotta a un anno. E intanto mi allenavo duro per giocare nel campionato indoor con i New York Arrows. L’anno dopo abbiamo vinto il campionato . E tornando da St. Louis la sicurezza ha dovuto chiudere l’aeroporto di New York per la ressa. Io ero di nuovo campione. Ero un calciatore professionista riconosciuto. Stavo giocando per vincere , venivo pagato. E avevo smesso di fare il burattino”.
Nel 1982 Zoltan Toth è portiere dell’anno: “La Major Indoor Soccer League era lo sport in più rapida crescita negli States in quel momento. Abbiamo battuto tutti i record di pubblico: quindici – ventimila a partita. Sold out a Wichita, Baltimora, Los Angeles, Tacoma. Ho giocato al Madison Square Garden e ho quasi pianto di gioia. Poi nell’ ’83 sono stato convocato per l’All Star MISL a Kansas City”.
Quel giorno Zoltan strabilia per agilità, tempismo. Gli avversari sembrano soggiogati e la palla proprio non passa: “Mi hanno richiamato per l’All Star altre sei volte, consecutive. A Cleveland, dove si trovava la maggior parte degli immigrati ungheresi, abbiamo vinto col punteggio più alto. La CBS e l’ESPN trasmettevano le mie partite . Sono passato ai San Diego Sockers vincendo campionati a ripetizione e giocando anche nella NASL. Già , perché sono tornato a giocare all’aperto in un campo grande. Adesso a San Diego alleno i portieri”.
Vive a Rancho Santa Fe, il quartiere più elegante di San Diego. Dalla sua casa in collina si domina l’oceano.
Zoltan non può smettere di essere libero, ma non può neanche smettere di essere ungherese: “Mi manca la mia lingua, la cucina, la letteratura . E quelli come Geza Hofi che prendevano in giro il regime e hanno fatto il carcere. In un altro mio sogno, io ritorno lì coi miei genitori. Anche se qualcosa mi fa rimanere ancora qui in California”. Nel frattempo, San Diego ha ritirato la sua maglia numero 1.
Ernesto Consolo
Da Soccernews24.it