Ho ancora impresso nella mente un gol di quel 4 febbraio del 1968, quando la squadra del Varese di Bruno Arcari travolse nello stadio amico la Juventus di Herberto Herrera con una clamorosa cinquina. La tripletta la siglò un giovane centravanti siciliano ventenne che salì così alla ribalta di ogni cronaca sportiva.
Io ero allora un adolescente che andava male a scuola, ma che si destreggiava bene negli allievi della squadra dell’oratorio. Qualcosa capivo del gioco della “pelota” nostrana seguendo le partite dell’AC Thiene da sopra il muro di cinta dello stadio “Miotto”, guardando le cronache del secondo tempo di serie A trasmesse alle sette di sera in TV e le sintesi di tutte le gare d’ogni benedetta “Domenica sportiva”.
Quel giorno con mio padre, accanito tifoso della Juve, seguivo il secondo tempo scelto da mamma Rai: Varese – Juventus. Sergio era già sulle spine perché il cronista aveva premesso che la sua squadra del cuore era sotto di due gol che, per i biancorossi locali, erano stati siglati da Leonardi e un certo Pietro Anastasi. La tv era ancora in bianco e nero. La casacca extralarge della Juve intonata con le righe verticali della zebra, contrastava con quella dei giocatori del Varese che indossavano una maglia fumo di Londra con il collarino bianco.
Ricordo come mio padre, invece, fumasse come un turco , una dietro l’altra, le sue immancabili Nazionali Semplici, cupo in volto. Io a quel tempo ero tifoso juventino per una forma di solidarietà paterna, ma a me interessava più che altro osservare la partita valutando l’abilità dei giocatori e soprattutto quella degli attaccanti.
Guardavo come si muovevano; nel dribbling, nelle finte, nello smarcamento, triangolazioni e assist. Insomma per me la bravura di un giocatore si capiva osservando le sue capacità tecniche che esprimeva giocando con naturalezza. Quello che mi colpì di più quel giorno fu proprio Pietro Anastasi, un nome non propriamente settentrionale a differenza del compagno di squadra Leonardi.
Il giovane siciliano catalizzo la mia attenzione. Rapidità nel fintare, scatto, rapacità in area, caparbietà nel proseguire l’azione, destrezza nello smarcarsi, tiro potente, progressione e senso del gol erano alcune prerogative che vidi in quel ventenne che, dal basso dei mie quindici anni, consideravo già un giocatore adulto ben svezzato. In quel secondo tempo altre tre furono le sfere messe nel sacco della “Vecchia Signora” tra il disappunto di mio padre.
Una la segnò l’ala sinistra Vastola e le ultime due ancora Anastasi; un centravanti che mi aveva davvero entusiasmato e del quale avevo già pronosticato in quel preciso momento una raggiante carriera. Il gol che più mi è più rimasto impresso da cinquantadue anni a questa parte è proprio il quinto della cinquina; quello dell’apoteosi. Me lo sono andato a rivedere in internet. E’come lo vedo ancora oggi cristallizzato nella pellicola della mia memoria: un lungo lancio da un compagno di centrocampo e Anastasi che s’invola superando lo stopper al suo fianco. Entra in area e batte a rete sull’angolo sinistro col portiere in uscita.
Il pallone picchia sulla base del palo, mentre lui continua a correre seguendo l’azione. Ed è come aver fatto una triangolazione sul muro dell’oratorio di Catania dove il ragazzo aveva giocato con la stessa spensieratezza con cui gioca ora; il pallone passa dietro al portiere spiazzato e ritrova Pietruzzo pronto all’incontro per appoggiarlo di piatto in rete, accompagnato dall’urlo atavico della folla osannante. Mio padre quel giorno, pur deluso dalla prestazione della sua squadra, cacciandosi tra le labbra l’ennesima “celestina”, andò affermando che quel centravanti del Varese era una forza della natura; un gran giocatore. Quando la Juve lo acquistò dal Varese l’anno successivo, Sergio ritrovò finalmente tutto il suo buonumore. Nel frattempo io passai nell’AC Thiene indossando i colori rossoneri e, seppur diventando tifoso del Milan di Rivera, non essendo più condizionato dalle scelte sportive di mio padre, ammiravo con piacere l’attaccante juventino e la sua buona stella.
Lo consideravo il miglior centravanti di quelle memorabili stagioni. Eravamo tra la fine anni 60 e i primi anni 70 e forse intuivo nel mio inconscio che Pietro Anastasi, giocatore corretto, mai polemico non solo in campo, aveva adottato la filosofia del Paròn Nereo Rocco: palla lunga e pedalare. Ecco perché oggi sento che è un giorno di mestizia. Sento che con Pietro Anastasi se n’è andato uno dei punti cardinali dei migliori anni della nostra vita: una pietra miliare del calcio italiano.
Giuseppe (Joe) Bonato