17 gennaio 2020, Pietro Anastasi se ne è andato. Via come fece molti anni fa, giovane di belle speranze, partendo dalla sua Catania per giungere al Nord che lo ha dapprima adottato e poi fatto diventare uomo. Da lì non se ne è più andato via. Venerdì scorso è stato il giorno della sua ultima partita. E l’ha vinta ancora una volta perché l’amore vince tutto, l’ha vinta per la sua meravigliosa famiglia e per la sua Juventus.
Se n’è andato quale uomo vero ha saputo essere. Sempre. Ha deciso di porre fine, dopo indicibili sofferenze, al proprio dolore estesosi alla moglie Anna e ai suoi adorati figli. E la risposta del pianeta calcio è stata formidabile da un lato e meschina dall’altro. Formidabile per quella parte che costituisce la linfa vitale di questo sport meraviglioso che è il calcio, semplice e genuina, che da sempre sa distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo, l’amore dall’odio, chi merita considerazione e chi indifferenza.
A Torino, Milano, Ascoli, Varese, Catania e chissà quali altri luoghi, lontani e vicini, Anastasi è stato ricordato come merita, sia come uomo vero sia come sportivo, ricordandone la semplicità e la schiettezza che lo contraddistinguevano.
Dall’altra i vertici del calcio nazionale che non l’hanno saputo onorare degnamente non concedendo di ricordarlo in tutti gli stadi italiani. Il mondo della pedata ha dimostrato ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, di essere un mondo malato e cinico, dove ciò che conta non sono certamente i valori ma ben altro.
Certo non bisogna generalizzare nel giudicare ma avere il coraggio, perché di questo si tratta, di non far ricordare Pietruzzu in tutti gli stadi è stata una carognata. E qui mi fermo.
E pensare che il Pelè bianco, come venne affettuosamente battezzato a Torino, lui la maglia bianconera e azzurra l’ha saputa onorare fino in fondo. Quella maglia che con il trascorrere del tempo è diventata la sua vera pelle e che a seconda delle circostanze si trasformava da bianconera in azzurra. Sono venticinque le presenze di Anastasi in Nazionale accompagnate da otto reti che rappresentano un bottino ragguardevole per un attaccante di manovra come Pietro. La più preziosa, quella siglata nella finale ripetuta contro la Jugoslavia dopo aver pareggiato la prima.
Una rete realizzata in acrobazia dopo un passaggio di De Sisti all’altezza del limite dell’area di rigore. Una realizzazione acrobatica, tipica di “o turcu” – così veniva chiamato in giovanissima età per la sua pelle scura dovuta all’abbronzatura – insieme a quella compiuta da Gigi Riva che ci permise di diventare per la prima e unica volta Campioni d’Europa. Era il 1968, l’anno delle rivoluzioni e dei sei politici rilasciati dalle università italiane.
Un giocatore straordinario che si ritrovò suo malgrado a rappresentare e assumere un ruolo sociale fondamentale nel capoluogo sabaudo. Il riscatto di migliaia di meridionali venuti fino a Torino a lavorare alla Fiat, lontani dalla propria terra, desiderosi di sentirsi in qualche modo affrancati. Questo era Pietro Anastasi: il collante di interi popoli trasferitisi dal Sud in una terra che li accoglieva e ospitava ma che non avrebbero mai sentita loro fino in fondo.
Con il trascorrere degli anni, ricorrendo ad una metafora, Pietro Anastasi si può considerare l’anello di congiunzione tra Nord e Sud, frutto di una integrazione perfettamente riuscita. Ma non è stato solo questo. Aveva la capacità innata di fare gruppo e di saper farsi voler bene da compagni e amici. Se ne è andato in silenzio solo come i grandi campioni sanno fare. In punta di piedi, con dignità. Grazie Pietro.
Dario Barattin