Davvero molto bello il libro di Darwin Pastorin sull’indimenticabile Gaetano Scirea. Abbiamo avuto il piacere di parlarne direttamente con l’autore
Nell’introduzione definisci il libro non una biografia, ma una testimonianza: qual’è stato il tuo intento?
Sì, il mio libro non è una biografia, ma una lunga lettera di amicizia e di nostalgia, una testimonianza sentimentale ed esistenziale. Ho raccontato l’uomo più che il campione. La sua sincerità, la sua umiltà, la sua sensibilità. Gaetano era gentile, disponibile, generoso. Era il pane in tavola.
Quanto manca Gaetano Scirea al mondo del calcio?
Moltissimo. Ha ragione Dino Zoff: mancano anche i suoi silenzi. Quei silenzi che racchiudevano tutti i versi limpidi e tutti gli aggettivi perfetti. Scirea non aveva bisogno di sprecare parole per farsi rispettare e capire. Non aveva bisogno di urlare. Era un Angelo Calciatore.
Cosa penserebbe di un calcio con sempre meno valori?
Cercherebbe, Gaetano, di portare il suo esempio. I suoi valori. La forza della sua esperienza. Lo immagino, soprattutto, allenare i giovani. Il calcio moderno ritroverebbe, come per incantamento, la sua poesia, la sua vena romantica. La sua folgorante bellezza, la sua epifania.
C’è un particolare del suo carattere che ti ha particolarmente colpito?
La sua dolcezza: che rappresentava una forza e non una debolezza. E mi manca il suo abbraccio, il suo “ciao, come stai?”, la sua visione limpida sul mondo del pallone e sui labirinti della vita.
Credi sia stato il miglior libero di tutti i tempi?
Sì. Assolutamente. Ha vinto tutto con la Juventus ed è stato uno dei protagonisti omerici e salgariani di quell’epico mundial del 1982. Giocava a testa alta, piedi buoni e un talento naturale. Mai espulso, una sola ammonizione. Un calciatore dalla correttezza esemplare. E sapeva trasformarsi, in caso di necessità, in centrocampista e in goleador. Mi disse Beppe Furino, il caminitiano “capitano con l’elmetto”: “Poteva fare, con successo, anche il terzo destro”. Un fenomeno, che ha saputo indossare la gloria senza arroganza, con semplicità.
La tragedia dell’Heysel ha in qualche modo cambiato il suo rapporto con il calcio?
L’Heysel rappresenta, e rappresenterà per sempre, un dolore, una ferita, una immane tragedia per tutti. Non dobbiamo mai perdere la memoria di quello che è stato. Il calcio, in quella notte maledetta, smarrì, definitivamente, la sua innocenza.
Secondo te , con il senno di poi, avrebbe fatto a meno di andare con la nazionale in Messico nel 1986?
No, e perché? Era un campione del mondo in carica e aveva voglia, lo ricordo perfettamente, di fare bene anche in Messico. Purtroppo la nazionale di Bearzot non era più quella di Spagna: Paolo Rossi e Tardelli subito messi da parte, Galderisi senza gol; e, così, dopo aver passato il primo turno contro Bulgaria, Argentina e Corea del Sud, ha avuto facile gioco la Francia di Platini nel mandarci a casa. Ma noi restiamo quelli di Madrid, sempre e per sempre!
Difficile riscontare nel calcio un connubio dentro e fuori dal campo come quello tra Scirea e Zoff, qual’é la tua riflessione a riguardo?
Gaetano e Dino, due amici fraterni. Due esemplari compagni di avventura e di strada. Due fuoriclasse dentro e fuori il prato verde.
Ai nostri giorni che insegnamenti posso trarre i giovani dalla sua figura, dalla sua moralità e dai suoi principi?
Ai giovani consiglio di andare a vedere e rivedere le partite e le interviste di Gaetano Scirea, una maestro di vita e non solo di pallone. Io sono orgoglioso di averlo conosciuto, di essergli stato amico. Un’amicizia che continua con Mariella e Riccardo.