
Suleiman al-Obeid, leggenda del calcio di Gaza, è stato ucciso in un attacco israeliano nel sud della Striscia, mentre attendeva – come tanti altri civili – un carico di aiuti umanitari. Aveva 41 anni, una moglie e cinque figli
La notizia è arrivata come un fulmine tra le macerie, in un territorio dove la morte è ormai cronaca quotidiana, ma che ogni volta riesce ancora a colpire il cuore. Perché Suleiman non era solo un calciatore: era un simbolo. Per molti ragazzi palestinesi, che giocavano con palloni sgonfi nelle strade polverose, lui rappresentava la possibilità che il talento potesse superare i muri e la guerra.

Nato il 24 marzo 1984 nel campo profughi di al-Shati, a Gaza, aveva cominciato a rincorrere la palla tra vicoli stretti e sabbia, dove le porte erano due pietre e i sogni non avevano confini. La sua carriera lo portò a vestire le maglie di Khadamat al-Shati, Markaz Shabab al-Am’ari in Cisgiordania e Gaza Sport. Poi, nel 2007, l’esordio con la nazionale: 24 presenze, due gol. Uno di questi rimase scolpito nella memoria collettiva: una rovesciata spettacolare contro lo Yemen durante il campionato dell’Asia Occidentale nel 2010. Un gesto atletico, leggero e magnifico, che gli valse il soprannome più grande: “il Pelé palestinese”.
Era l’immagine di un calcio che resisteva nonostante tutto, che trovava spazi di libertà dove sembrava impossibile. I suoi gol erano piccole vittorie, lampi di normalità in un mondo che di normale aveva poco. Per questo la sua morte pesa come un macigno: perché cancella non solo un uomo, ma anche un simbolo di speranza.

Secondo la Federcalcio palestinese, dall’inizio della guerra sono stati uccisi 421 calciatori, 103 dei quali bambini. In totale, 662 sportivi e loro familiari hanno perso la vita. Le strutture sportive distrutte o danneggiate sono 288, di cui 268 a Gaza: stadi, palestre, campi di allenamento, club. Persino la sede della Federazione, colpita in un raid aereo. “È come se ci volessero togliere non solo le persone, ma anche i sogni”, ha detto un dirigente locale.

Eppure Suleiman continuerà a vivere nei racconti di chi l’ha visto giocare, nei ricordi di quelle acrobazie che sembravano sfidare la gravità, come faceva Pelé. I bambini di Gaza, quando tireranno una rovesciata su un campo polveroso, continueranno a pensare a lui.

Il calcio, dicono, non può fermare la guerra. Ma può raccontare una storia diversa, più grande delle bombe. E la storia di Suleiman al-Obeid – il ragazzo di al-Shati che divenne il “Pelé palestinese” – resterà una delle più luminose.
Mario Bocchio