
Anni Ottanta, in riva all’Arno il calcio aveva l’accento toscano e il temperamento del suo presidente: il Pisa di Anconetani, imprevedibile e battagliero, capace di fermare le grandi e di trasformare l’Arena Garibaldi in una trappola per chiunque osasse sottovalutarlo.

C’era un tempo in cui l’Arena Garibaldi non era soltanto uno stadio, ma un fortino. Ci si entrava con timore, e spesso se ne usciva con le ossa rotte, sportivamente parlando. Lì governava Romeo Anconetani, presidente vulcanico e teatrante nato, che seppe dare a Pisa un’identità calcistica fatta di orgoglio, sorprese e colpi di scena.

Negli anni Ottanta, mentre il calcio italiano brillava delle stelle più luminose del mondo, il Pisa si ritagliava il suo spazio con la faccia tosta di chi non accetta di recitare la parte del comprimario. Lì, tra i riflessi sul fiume Arno e le piazze piene di tifosi, arrivavano stranieri esotici e talenti nascosti, pescati con coraggio e intuito: da Kieft a Berggreen, da Dunga a Chamot e Simeone, uomini che avrebbero lasciato un segno ben oltre la maglia nerazzurra.

Anconetani li accoglieva con la sua teatralità, li spronava con le sue arringhe colorite, e li consegnava a un pubblico che dell’orgoglio pisano aveva fatto una fede. Le grandi squadre, quando mettevano piede a Pisa, sapevano di non avere vita facile. Milan, Inter, Juventus: tutti, prima o poi, si erano trovati intrappolati nella ragnatela di una provinciale terribile, capace di rendere epico anche un pareggio.

Non era solo calcio: era passione popolare, era la provincia che si alzava in piedi e diceva al Paese intero di saper lottare e di voler essere rispettata. Romeo Anconetani, con le sue follie e la sua genialità, costruì un mito che ancora oggi i pisani raccontano con orgoglio e nostalgia.
All’Arena Garibaldi non si andava a fare turismo calcistico. Si andava in guerra. E spesso, la guerra, la vinceva Pisa.
Mario Bocchio