
L’ultima magia di un fuoriclasse che trasformò uno stadietto di provincia in un “piccolo Wembley”
Lungo la strada che porta a Maghera, in una fredda domenica d’inverno del 1984, le auto erano ferme in fila come per un pellegrinaggio. Non si trattava di una finale né di un grande appuntamento internazionale, ma di un incontro di Coppa d’Irlanda tra il modesto Tobermore United e il più quotato Ballymena. Eppure, per centinaia di persone, quella partita sarebbe diventata un ricordo da custodire per sempre. Il motivo aveva un nome che da solo bastava a riempire stadi e cuori: George Best.

A 37 anni, con i giorni di gloria al Manchester United ormai lontani, Best accettò l’invito del Tobermore. La notizia circolava da settimane, a metà tra speranza e leggenda. Sarebbe davvero sceso in campo, con la maglia rossonera di un club di provincia? Alla fine l’accordo fu trovato, e il sogno prese forma.
L’11 febbraio, quando il fuoriclasse nordirlandese mise piede a Fortwilliam Park, il piccolo impianto si trasformò. I cronisti locali scrissero che sembrava “un piccolo Wembley”. In effetti, i 4.000 presenti non erano lì per il risultato, ma per respirare da vicino l’aura di un genio che aveva incantato l’Europa e che, nonostante tutto, continuava ad attrarre come pochi altri.

La partita, in sé, non offrì sorprese. Il Ballymena dominò fin dai primi minuti e chiuse con un sonoro 7-0. Best provò a lasciare qualche lampo: un passaggio preciso, un controllo elegante, persino un tiro verso la porta. Piccoli gesti che riportavano alla memoria ciò che era stato, e che bastavano per far sussultare il pubblico. Perché quel giorno, ogni volta che la palla gli arrivava tra i piedi, si percepiva un brusio, un’attesa sospesa, come se potesse accadere ancora una magia.
C’è un’immagine che riassume meglio di tutte il senso di quella giornata. A pochi minuti dalla fine, un bambino, seduto sulle spalle del padre dietro la porta, insistette: “Ancora un attimo, papà, ha di nuovo il pallone”. E il padre, già pronto ad andarsene, rimase fermo. Perché in fondo nessuno voleva perdere nemmeno un secondo di George Best.

Al fischio finale, lo spogliatoio del Tobermore fu assediato dai tifosi. Autografi, foto, strette di mano: Best accolse tutti con calma e sorriso, prima di ripartire verso Londra e da lì a Los Angeles, dove lo attendeva la compagna Mary Stavin. Due ore dopo era già su un aereo, ma in Irlanda del Nord il suo passaggio a Tobermore era destinato a entrare nella memoria collettiva.
Non fu una vittoria, non fu una partita memorabile per il punteggio. Fu qualcosa di diverso, forse di più: l’incontro tra un campione sul viale del tramonto e una folla che ancora lo amava senza condizioni. Una parentesi unica, che confermò come George Best, anche quando non era più il “quinto Beatle” del calcio, restava comunque capace di trasformare una semplice domenica in provincia in un evento da raccontare quarant’anni dopo.
Mario Bocchio