
Colonna difensiva del Bologna accanto a Secondo Ricci, trascorse due anni da prigioniero in un lager, senza mai smettere di giocare a calcio
Nel calcio italiano tra le due guerre, le vite dei giocatori si intrecciavano spesso con i grandi eventi della Storia. È il caso di Mario “Rino” Pagotto, friulano di Fontanafredda, nato il 14 dicembre 1911, cresciuto tra l’oratorio e le partite a Pordenone, con il mito del pugile Primo Carnera. Difensore solido e leale, con piedi insolitamente educati per un terzino dell’epoca, arrivò in Serie A solo a 25 anni, chiamato dal Bologna di Árpád Weisz.
In coppia con Secondo Ricci formò, dal 1936 al 1943, una delle retroguardie più temute del campionato, vincendo tre scudetti e il prestigioso Trofeo dell’Esposizione Universale di Parigi del 1937, battendo in finale il Chelsea.

La guerra cambiò tutto. Arruolato negli Alpini, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi e deportato nel campo di lavoro di Białystok, in Polonia. In sei mesi perse 30 chili tra fame, freddo e lavori forzati, ma resse grazie a un fisico d’acciaio e a una volontà ferrea. Con l’avanzata sovietica fu trasferito prima a Odessa, poi a Černivci, dove incontrò altri calciatori italiani. Insieme improvvisarono una squadra: partite su una spianata di terra, pallone di stracci e porte segnate con le tute dei prigionieri. Nessuno riusciva a batterli.

A guerra finita rientrò in Italia, abbracciando per la prima volta il figlio nato durante la prigionia. Tornò anche al Bologna, ma le fatiche del lager ne avevano logorato il fisico. Chiusa la carriera, parlò raramente di quegli anni. Restò però l’immagine di quel campo polveroso in Ucraina, dove un gruppo di prigionieri italiani continuava a sognare la libertà rincorrendo un pallone.
Mario Bocchio