Il mediano col 9: storia di Alberto Piccinini, dalla Juventus alla FIAT
Ago 8, 2025

C’era una volta un numero 9 che non segnava gol, ma marcava l’attaccante avversario. A fine carriera, invece di aprire un bar o allenare qualche squadra minore, trovò un impiego in una filiale romana della FIAT. Con uno stipendio da semplice impiegato e qualche risparmio messo da parte, si costruì una famiglia. Ebbe due figli: Stefano e Sandro. Sì, proprio lui: “’cccezionale!”.

Questa è la storia di Alberto Piccinini, mediano con licenza di marcare, con due scudetti juventini nel palmarès e un ruolo tutto suo nella rivoluzione tattica del calcio italiano.

Con la maglia della Juventus


Il centravanti che annullava i centravanti. Negli anni del secondo dopoguerra, quando il calcio italiano era ancora in bilico tra passato e futuro, Piccinini fu uno dei pionieri inconsapevoli di un’evoluzione tattica. All’apparenza un classico centrocampista, ma schierato con un numero che tradiva il suo vero compito: il 9.

In un undici juventino nella stagione 1951-’52


Quel numero sulle spalle non lo portava per segnare, ma per confondere. Dietro quell’idea c’era la mente geniale e ribelle di Gipo Viani, allora allenatore della Salernitana. In un’epoca in cui il “Sistema” imponeva marcature rigide basate sui numeri di maglia, Gipo decise di mandare in tilt lo spartito: se il numero 9 non stazionava in attacco, il suo marcatore diretto – il numero 5 – non sapeva più cosa fare. E mentre gli altri si disorientavano, Piccinini si incollava al centravanti rivale, liberando il centromediano o un terzino per coprire meglio l’area. Era una trappola tattica, un trucco d’altri tempi. Una scintilla del futuro.

Piccinini (in piedi, quarto da sinistra) in maglia azzurra nel 1952


Quella Salernitana non si salvò, ma lasciò un’impronta. E Piccinini si fece notare.

Romano, classe 1923, cresciuto a pane e pallone sotto i fumi di Campo Testaccio, Piccinini non riuscì mai a debuttare nella Roma. Fu girato a Salerno, ma da lì risalì la penisola. Dopo una parentesi a Palermo, arrivò la grande chiamata: la Juventus.

A Torino, la famiglia Agnelli voleva riportare la Vecchia Signora ai fasti degli anni Trenta. E proprio nel 1950, dopo la tragedia di Superga che aveva cancellato il Grande Torino, la Juventus di Jesse Carver conquistò uno scudetto fragoroso: 100 gol in 38 partite. Secondo Boniperti, la Juve più spettacolare di sempre. Praest, Boniperti e Hansen erano le stelle, ma Piccinini ne era il metronomo, insieme al fido Mari.

Nella Juve 1949-’50, che Boniperti definì “la più spettacolare di sempre”


Due anni dopo arrivò il bis: scudetto numero nove, stavolta con György Sárosi, un tecnico dal tocco più raffinato rispetto all’inglese Carver. Piccinini era nel pieno della sua carriera: due tricolori, 104 presenze in bianconero, soltanto nove sconfitte.

“Quelli furono gli anni più belli della mia vita”, raccontava più tardi.

La Juventus 1952-’53

Poi, come spesso accade, arrivò il bivio. Il Milan mise sul tavolo un’offerta. La Juventus decise di non pareggiarla. “Te ne pentirai, Alberto”, fu l’ultimo saluto di Gianni Agnelli. E aveva ragione. A Milano, Piccinini trovò una stagione difficile. Tornò a Palermo, ma un grave infortunio al ginocchio lo costrinse al ritiro anticipato, a soli 31 anni.

Piccinini nel Milan 1953-’54



Erano i tempi del boom economico. Il calcio stava cambiando pelle, diventando spettacolo, consumo, industria. Piccinini no. Lui era figlio di un’altra epoca. Appese gli scarpini al chiodo, trovò lavoro nella galassia FIAT. Gianni Agnelli non lo dimenticò: lo accolse in azienda come si fa con uno della famiglia.

I grandi del calcio lo ricordano per l’intelligenza tattica, la duttilità, la capacità di leggere il gioco. Ma molti lo conoscono soprattutto attraverso la voce di suo figlio, Sandro Piccinini, celebre giornalista sportivo. È stato lui, con affetto e lucidità, a raccontare i rimpianti e la dignità del padre. Un uomo che aveva rinunciato ai soldi di un contratto per restare fedele alla Juventus. Ma l’epoca era già cambiata. Il calcio cominciava a parlare un’altra lingua.

Alberto Piccinini, mediano col numero 9, fu un giocatore d’avanguardia in un mondo ancora in bianco e nero. E quando smise di giocare, divenne un uomo qualsiasi. Ma con due scudetti in tasca, un’idea rivoluzionaria sulla coscienza e un figlio che, con una voce inconfondibile, ha saputo raccontarlo al mondo.

Mario Bocchio

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