Bora Milutinović, il cittadino del mondo che ha portato il calcio ovunque
Lug 25, 2025

Tutto in Velibor “Bora” Milutinović ha il sapore dell’esotico. Il suo modo di vivere il calcio, sempre sorridente e mai sopra le righe, lo ha reso una figura unica nel panorama internazionale: un uomo che ha fatto della panchina una missione e del pallone un passaporto universale. Non lo si è mai visto perdere le staffe, nemmeno nei momenti più delicati. Per lui, il calcio è stato innanzitutto gioco, passione, e un’occasione per unire mondi diversi.

1963, nel Partizan Belgrado

È stato il primo allenatore a guidare cinque nazionali diverse ai Mondiali, impresa poi eguagliata solo da Carlos Alberto Parreira, che però aveva il “vantaggio” di aver diretto anche il suo Brasile. Bora invece no: ha sempre accettato sfide ai limiti dell’impossibile, guidando squadre lontane dai riflettori, quando non addirittura considerate le cenerentole del torneo. Come la Cina nel 2002, ad esempio.

Bora Milutinovic aveva altri due fratelli calciatori, molto più grandi di lui: Milorad lasciò il Partizan nei primi anni Sessanta per andare a giocare in Svizzera, mentre Milos, il maggiore, fu un colonna della Jugoslavia degli anni Cinquanta e capocannoniere della Coppa dei Campioni 1956 con il Partizan, vestendo poi le maglie di Bayern Monaco, RC de Paris e Stade Français



Nato nel 1944 a Bajina Bašta, località oggi serba ma a due passi dalla Bosnia, Milutinović ha abbracciato fin da giovane un’esistenza senza confini. Dopo gli esordi con il Partizan, si è trasferito in Francia da calciatore, per poi concludere la carriera in Messico, dove ha trovato casa e famiglia. È lì che tutto cambia: è il Pumas UNAM a offrirgli la transizione dal campo alla panchina, una scommessa che si rivela vincente. In pochi anni conquista due campionati e una Coppa dei Campioni centroamericana, diventando un riferimento assoluto nel calcio messicano.

Ct del Messico, insieme a Hugo Sanchez

Nel 1983 diventa commissario tecnico del Messico, e tre anni dopo guida la nazionale ai quarti di finale del Mondiale casalingo, imbattuto ma fuori ai rigori contro la Germania Ovest. È l’inizio del mito. Anche se nel frattempo, nel 1987, si concede una breve parentesi italiana: viene chiamato dall’Udinese in Serie B, ma l’avventura dura poco e finisce male.

L’esperienza in Italia all’Udinese



È però con le nazionali cosiddette “minori” che Bora lascia il segno. Con il Costa Rica centra una storica qualificazione a Italia ’90 e porta la squadra fino agli ottavi di finale, battendo anche la Svezia. Il pubblico di Genova si innamora del portiere Conejo e dell’attaccante Medford, destinato a un fugace passaggio anche nel nostro campionato.

Alla guida delle Nazionali costaricense (a sinistra) e nigeriana

Nel 1994 tocca agli Stati Uniti, padroni di casa. La nazionale americana è ancora in bilico tra professionismo e dilettantismo, ma con Milutinović in panchina passa la fase a gironi e viene eliminata con onore dal Brasile, futuro campione.

Bora in Cina



Nel 1998 un’altra sfida ancora: la Nigeria. Un mix esplosivo di talento e sregolatezza. Dopo una vittoria spettacolare per 3-2 contro la Spagna, la squadra vola agli ottavi da prima del girone, ma crolla sotto i colpi della Danimarca (4-1). Una delle poche vere delusioni del percorso mondiale di Bora.

Tra giocatore e allenatore, Milutinovic ha lavorato in 14 paesi e in cinque diversi continenti. L’unico altro tecnico ad aver portato cinque squadre diverse ai Mondiali è Carlos Alberto Parreira



Il suo capolavoro arriva nel 2002, quando riesce a qualificare la Cina al suo primo – e finora unico – Mondiale. La squadra è tecnicamente molto indietro rispetto alle concorrenti, non segna nemmeno un gol, ma la sola partecipazione è considerata un’impresa. Contro il Brasile, lo 0-4 finale è la fotografia di un abisso, ma anche lì, Bora sorride.

L’ultima volta, in Iraq


Cinque nazionali, cinque Mondiali consecutivi, un viaggio tra tre (e mezzo) continenti. Milutinović non ha vinto trofei globali, ma ha lasciato un’impronta ben più profonda: ha esportato il calcio dove non c’era, lo ha fatto amare in angoli del pianeta lontani, lo ha reso una festa. Invecchiato bene, rispettato ovunque, rimane uno dei pochi personaggi di cui si può parlare solo bene. Un vero ambasciatore del gioco più bello del mondo.

Mario Bocchio

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