Secondo sondaggisti non ufficiali, è la pelata più famosa delle Figurine Panini degli anni Settanta. E una rarità per i collezionisti. Il poeta Fernando Acitelli gli ha dedicato un verso: “Mi alzavo. Era di Fiume ! Oh, che gusto mi dava saperlo eroe e non divo”.
Intorno a lui il calcio cambiava in fretta e non sempre in meglio. “Sono orgoglioso di essere il giocatore con il maggior numero di presenze nella storia del Novara”. Lui però sembrava rimanere fermo. Immobile. Come fosse il testimone di una fase primordiale. Come chiuso in una bolla. Stessa maglia del Novara, stesso ruolo in campo. Anche se il “centromediano” adesso si chiama “stopper”. Non più solo figurina, ma pittura monumentale.
Per presenze in campionato con una sola maglia, Giovanni Udovicich può invidiare solo calibri come Francesco Totti, Javier Zanetti, Paolo Maldini e Franco Baresi. Stazionando a un’incollatura da Bergomi, ma davanti a Del Piero. E’ approdato a Novara quando aveva sette anni . Non c’entra il pallone, ma il governo di Tito e la caduta del fascismo. “Sono di Fiume e i comunisti slavi non ci potevano vedere”. E’ solo un bambino, per fortuna, che può rimanere chiuso nel suo mondo mentre intorno crolla tutto: “Mio papà era meccanico specializzato in una raffineria, la mamma casalinga. Tutti nati a Fiume come i cugini . Non abbiamo mai sofferto la fame perché mio padre aveva un ruolo importante nella raffineria. A Fiume io scappavo e andavo a giocare in spiaggia. Al ritorno i miei genitori mi controllavano: se trovavano tracce di salsedine, erano botte. Giocavo anche nella raffineria. Ma mica si calciava una palla: un gomitolo di stracci”. Poi la partenza: “Siamo venuti via in treno nel ’47. E quando, dopo tanti anni, sono tornato a Fiume, mi urlavano ancora ‘italiano fascista’”.
“Finita la guerra, i miei genitori fecero domanda per il campo profughi di Genova, perché c’era già una zia e soprattutto perché volevano continuare a vivere sul mare. Ma non c’era più posto e , dopo qualche mese a Trieste, nel giugno 1947 finimmo a Novara. Altrimenti sarei potuto diventare un giocatore del Genoa”.
Nessuno potrebbe immaginarlo adesso con un’altra maglia. Come se venisse cacciato dalla sua casa.
“Eravamo profughi. Quindi non eravamo ben visti. Di qua, appena arrivati, ci misero nella caserma ‘Perrone’ e fuori dai cancelli sentivo genitori che, quando i figli facevano storie, li minacciavano ‘Smettila o ti mando a mangiare lì dentro dai profughi’ . Sottili ma dolorose discriminazioni. Per me è stato abbastanza facile superare questo impatto . Quelli che hanno sofferto di più sono stati i miei genitori, che avevano dovuto abbandonare la loro casa. Che insieme all’ultimo quattrino èstato consegnato alla Jugoslavia. Lentamente siamo diventati novaresi a tutti gli effetti, andando ad abitare le case del villaggio Dalmazia”. E non lo si poteva chiamare diversamente . “E’ lì che sono cresciuto e il calcio era la mia grande passione. Dalla mattina alla sera. Studiare non mi piaceva tanto. Una domenica fredda d’inverno, un amico che aveva la Moto Guzzi mi portò a vedere una partita : Torino – Triestina”. Scende dalla moto semi-assiderato. “Sembravo un sasso”. Al Filadelfia c’è il numero 8 granata, che si chiama Ezio Loik ed è fiumano come lui. Duetta egregiamente con l’altra mezzala, Valentino Mazzola.
“Erano meravigliosi. Quel giorno sognai: un giorno voglio fare il calciatore di professione”. Intanto nessun indugio: diventa tifoso del Grande Torino : “E la possibilità di coltivare il mio sogno me la diede quel sant’uomo di don Aldo Mercoli, il vicedirettore del seminario, che andava raccogliendo tutti i giovani degli oratori per farli partecipare al suo ‘Torneo dei Ragazzi’ “. In mezzo a centinaia, il Novara vede svettare un quindicenne che supera già il metro e ottanta. Ruolo: centravanti. Qui incontra un altro numero 9 che di nome fa Silvio e di cognome Piola e ha appena smesso di giocare. “La prima cosa che mi disse quando cominciai a giocare fu: ’ Non esaltarti mai troppo quando le cose vanno bene , così come non ti devi abbattere se ti girerà tutto contro ’ ”. Nel 1955- ’56 vince il campionato CSI con la squadra Ragazzi .
Due anni dopo il debutto in serie B contro il Bari. Ancora centravanti : “Abbiamo perso 3-0, una partita nella quale ho toccato a malapena tre palloni . Quelli da rimettere in gioco dopo i gol subiti. A marcarmi c’era Gianni Seghedoni, che in seguito è venuto proprio a Novara ad allenarmi. Quando ci siamo rivisti, ci siamo messi a ridere. Mi ha ricordato che non mi aveva fatto veder palla. Gli rispondo che io avevo diciassette anni e lui trenta”. Giovanni Udovicich esibisce una struttura adatta allo sforzo a ciclo lungo, meno per lo scatto breve. Ha piedi poco gentili, viene presto spostato al centro della difesa. “Di testa, essendo alto, non faccio fatica. Sono forte nell’anticipo . Capisco al novanta per cento dove finisce la palla“. Non entra in forma rapidamente. Lo esalta la continua, sistematica applicazione di energia.“Mi mandano a Roma per il servizio di leva. C’era anche Pizzaballa. Tornare a Novara due volte alla settimana in treno era sfiancante . Un anno mi addormentai , svegliandomi alla stazione di Torino. Presi il treno delle 5 per tornare a Novara , dove mi stavano aspettando per andare in trasferta”.
Tornare indietro serve a delimitare il territorio di una carriera incontaminata e degli inevitabili raffronti : “Adesso la gente come potrebbe affezionarsi a un calciatore? Un mese sei qui, un altro chissà dove. Io i giocatori del Novara di oggi neanche faccio in tempo a conoscerli. Noi invece siamo stati sempre fedeli alla maglia : io, Pierluigi Zeno, il portiere Fausto “Tato” Lena e Ambrogio Baira“. Anche se, per presenze nel Novara, lui se li lascia tutti alle spalle. E’ il 25 aprile 1962. Ottavi di Coppa Italia a San Siro e di fronte c’è l’Inter di Helenio Herrera. Giovanni Udovicich chiude con torreggiante puntualità sul centravanti portoghese Humberto Raggi. Novara batte Inter 2-1 nei supplementari con gol di Fumagalli e Zeno su rigore. Con immensa soddisfazione ricorda le due promozioni in serie B nello stadio comunale con le curve in legno. Il suo rendimento costante lo colloca tra i migliori della cadetteria nel suo ruolo: “Quelli della serie B sono stati anni fantastici”. Intoccabile per quasi tutti gli allenatori . E se a qualcuno salta in mente di metterlo in panchina, si rischia la sommossa.
Nel 1965 il suo Novara infila una serie positiva di venticinque domeniche interrotta solo dal Mantova capolista. Quel giorno Udovicich si spinge più volte in avanti. Ma quando calcia a botta sicura, in porta trova Zoff. Incancellabili vittorie come Marassi contro il Genoa, 22 gennaio 1967 : “Giorno di San Gaudenzio, patrono di Novara. Con gol di Giampiero Calloni. E vincemmo anche al ritorno , 3-1”. Si marca rigorosamente ad personam. Alitando addosso a centravanti come Giovanni Fanello (Alessandria,Reggiana, Catanzaro e Catania). “Era piccolo, mi ha fatto impazzire. Mi passava in mezzo alle gambe. Che battaglie nel vecchio campo di via Alcarotti. Soffrivo i piccoletti, mentre quelli della mia taglia facevano fatica a saltarmi. Anastasi all’andata a Varese mi ha fatto penare. Poi però al ritorno gli ho preso le misure e non ha visto neppure l’ombra del pallone”. Annulla anche il brasiliano Da Costa del Verona. E, verso la fine, il promettente Roberto Pruzzo del Genoa. ”I giornali dissero che l’avevo ridicolizzato. Il nostro era un duello di forza” . Uno splendido 1-1 davanti a ventimila spettatori, con gol di un certo Bruno Conti per il Genoa e pareggio di Marchetti su rigore.
Diventa “Nini” per i novaresi . Prova a nascondersi, ma è ormai un idolo, simbolo involontario della sobrietà piemontese : “Forse risaltavo di più perché avevo pochi capelli e i giocatori pelati erano una rarità. Non sono un tipo altezzoso . Parlavo volentieri con chiunque, dai tifosi ai giornalisti”. Nel 1964 lo voleva il Genoa, ma le due società non si sono accordate sulla cifra. Poi la Roma, l’Atalanta, la Lazio, il Bologna. Lui lo viene puntualmente a sapere ad inizio stagione, quando ha già firmato. Oppure a distanza di anni. “Non c’erano i procuratori. I giocatori erano pacchi postali. Certo, se mi avessero venduto, io sarei andato . Per me andava bene tutto. Anche se i miei abitavano a Novara e non potevo lasciarli da soli. Ma penso che sia stato giusto così. Io ero innamorato della maglia del Novara e di questa città, che è la mia vita. Qui sono nati i miei figli e i miei nipoti ”. Sei settembre 1970: Novara-Juventus per il girone eliminatorio di Coppa Italia. Pronostico obbligato e quindicimila sulle tribune, di cui oltre la metà juventini. Record d’incasso, 27 milioni di lire.
Il primo tempo si chiude 2-0 per la Juve ispirata da Haller. Anastasi però ha toccato poche palle, sistematicamente anticipato da Udovicich. La Juve non gioca neanche bene. E snobba l’avversario. Ha infatti soltanto un dirigente accompagnatore , il Conte Camillo Cavalli d’Olivola, di stirpe nobiliare sabauda : “Io sono appena rientrato dalle ferie”. Proprio Udovicich carica i compagni, che nella ripresa guadagnano campo. Prima accorciano, poi arpionano il pareggio. Segna entrambi i gol Pier Luigi Gabetto , di stirpe nobiliare anche lui. Perché viene dalla casata del Grande Torino. In porta entra proprio il trentasettenne Tato Lena, perché Felice Pulici ha preso un calcione. La Juve sparacchia, difende a stento il 2-2. E viene eliminata. Passa il turno proprio il Novara. Poi contro il Monza esce. Ma solo ai rigori. Due mesi dopo, in campionato, contro il Taranto è uno 0-0 combattuto. “Le mie espulsioni in carriera? Due in tutto”. A venti minuti dalla fine l’arbitro espelle Udovicich per un fallo di gioco su Aristei. I tifosi azzurri sono inferociti. Al novantesimo assediano lo spogliatoio dell’arbitro, che lascia lo stadio dopo un’ora da un’uscita secondaria. La timidezza contrasta silenziosamente con la fascia di capitano: “Non mi piaceva. L’avrò fatto un paio di volte. Anche se i miei compagni erano fieri di me”. Come se portasse la fascia tutti i giorni. Fino ad oggi.
Finisce con l’essere apprezzato anche dagli avversari: “In Coppa Italia contro il Milan marcavo Bigon: a un certo punto sulla fascia mi invento un disimpegno di tacco e per cinque minuti tutto lo stadio di San Siro mi applaude. Mi vengono ancora i brividi. Ma finiva quasi sempre così ovunque”. E ottiene il perdono quando in quell’altro Novara-Juve di Coppa Italia accade l’impensabile. E’ la rivincita a distanza di due anni. Il Novara domina, ma deve cambiare due uomini per delle entratacce. Anastasi stavolta non la vede nemmeno. La Juve va in barca ed è ancora 0-0 solo perché l’arbitro non concede due evidenti rigori al Novara. Che prende anche un palo con Baisi. Il focoso Fabio Enzo degli azzurri sbaglia un gol fatto e poi viene cacciato per proteste. Così, quando Nini Udovicich prende un calcione a freddo da Francesco Morini, si scaglia contro l’arbitro, ancora distratto: viene placcato in tempo. La Juve vince incredibilmente al novantaduesimo su un rigore assai dubbio. Le forze dell’ordine riescono ad evitare l’invasione di campo.
Nel frattempo fisiologico arretramento nel ruolo di libero. Per raggiungere agevolmente un obiettivo: “Sono fisicamente integro e posso giocare ancora per qualche stagione. Mi piacerebbe arrivare al traguardo dei vent’anni in maglia azzurra . Dipendesse solo da me , sicuramente ci arriverei”. Lo scruta da bordo campo sua moglie Maria Rosa, accompagnata da un piccolo Udovicich.
Il 14 aprile 1975 i tifosi del Genoa Club Varazze inviano un telegramma a Giovanni Udovicich, “autentico esempio ai giovani di serietà professionale ed attaccamento ai propri colori”. Non l’ha dimenticato. Dai tifosi del Genoa riceverà anche dei premi. Anche se l’avevano soprannominato affettuosamente “Lampadina”. Ma in campo gli è toccato sentire tante volte anche: “Nonno, ritirati”, “Lascialo indietro quel vecchio” o “Testapelata”. Lui ogni tanto rispondeva con la mano. Facendo un bel paio di corna. Ha anche una decina di gol all’attivo. Come quella volta contro il Pisa: lui apre le marcature e alla fine il Novara vince 7-1. E nel derby contro i cugini astigiani con una sassata da trenta metri.
E’ cattolico : “Mai entrato in campo o uscito di casa senza farmi il segno della croce. Ma sono sempre stato anche un po’ superstizioso . Avevo i miei riti scaramantici. Il 17 che brutto numero. Così quando dicono che ho fatto 517 presenze nel Novara, io preferisco dire che sono 520”. Attorno a Nini crescono intanto ragazzi di prospettiva. In ordine sparso: Claudio Garella, Felice Pulici, Luigi Del Neri e Renato Zaccarelli. Poi una volta a Taranto: “Scendo dal pullman per entrare negli spogliatoi e uno mi fa: ‘Ma lei non è Udovicich, quello che giocava con il Novara una quindicina di anni fa?‘ Lo fulmino : ‘Guarda stupidone che gioco anche oggi’ ”. Solcando l’Italia in lungo e in largo: “Splendidi i campi del Sud, come Reggio Calabria, Palermo . E poi Catania , dove una volta si avvicinano in sette-otto e mi rubano il portafoglio. Ma sì, avevo poco”. Il 31 luglio 1975 c’è il raduno pre-campionato. Lo stadio nuovo è quasi pronto. Lui è tra i primi ad arrivare. “Bisogna arrivare presto per accaparrarsi una maglia. Altrimenti si resta senza”. Il Novara ha parecchi volti nuovi: “Ma sono io che ho cambiato squadra?”. “Per quanti anni ancora intende giocare? “ “Non lo so . Uno o due. Vorrei anche tre, ma non so se ce la faccio”. Il 23 novembre, a Bergamo, una partita come tante. Anche se Atalanta – Novara è la sua cinquecentesima in campionato. Nessun problema contro il centravanti che si chiama Vincenzo Chiarenza ed è di quasi quindici anni più giovane. Poi dopo un’ora, Nini prende una botta. Zoppica. Sta per mollare. Un centravanti lo fermi, il tempo no. Resiste. Si riprende , va in area avversaria e sfiora il gol. Il Novara porta a casa un buon pareggio. E lotta per la promozione in A.
Pomeriggio del 30 maggio 1976. La serie A è lì , soltanto a un punto . Il Novara deve assolutamente vincere. All’undicesimo del primo tempo di Novara – Ternana , Nini Udovicich si rompe il menisco. “La gamba sembrava un orsetto, tanto era gonfia”. La partita finisce 0-0. La classifica recita così: Genoa e Foggia 43, Brescia e Varese 42, Novara e Catanzaro 41. E lui deve saltare i quasi spareggi di Catanzaro e Foggia. Dove tutto sfuma: “I dirigenti vengono perfino a casa mia per incoraggiarmi a tornare in campo . Io quando ho visto che il ginocchio continuava a farmi male, ho deciso di chiudere col calcio. Ma avevo fatto di tutto per non smettere. Il rimpianto più grande è non aver potuto giocare in serie A” . Non sceglie lui il momento di smettere. Forse così si soffre meno. Tutti.
Prova ad allenare nel settore giovanile. Inutile dire di quale squadra. Ma senza averne l’attitudine, come per la fascia di capitano. E con un salvagente pronto. Fuori dal campo, l’umiltà e la dedizione sono intatte: “Ho chiesto al Novara la raccomandazione per il posto in banca. Sono entrato come commesso e sono andato in pensione come capo dell’ufficio commessi. Anche in quel caso una lunga e onorata carriera”. Una sera si affaccia al balcone della sua casa in via Augusto Righi . Vede i riflettori accesi dello stadio che adesso è intitolato a Silvio Piola. Sua moglie gli ha detto: “Nini questa notte è anche la tua. Te la meriti”.Lui la saluta. Una sciarpa azzurra al collo e ci va . E’ il settembre 2011 ed la prima casalinga di serie A del Novara dopo 55 anni.
Dall’altra parte c’è l’Inter, tra l’altro.
Che ne prende tre.
Quando torna a casa, Nini ha gli occhi lucidi: “C’era gente che puntava il dito verso di me e mi chiamava per dirmi le stesse parole di mia moglie. Mi hanno riconosciuto e salutato tutti. Mi sono sentito ripagato della sofferenza per quella serie A che mi è sempre sfuggita. Ragazzi abbiamo battuto Milano”.
Ernesto Consolo
Da Soccernews24.it