
Salah Djebaïli uscì dall’università con la cartella sotto braccio, come ogni sera. Aveva appena spiegato ai suoi studenti perché il deserto avanza, ma non tutto è inevitabile. Si avviò verso l’auto. Tre ragazzi gli vennero incontro. Pensò: forse una domanda, forse una protesta. Poi il metallo esplose. I proiettili gli attraversarono il petto come lame. In pochi istanti, l’uomo che era stato capitano del Nîmes e rettore dell’università di Bab-Ezzouar, spirò in silenzio sul sedile del guidatore.
Alla fine della sua giornata, Salah Djebaïli uscì dall’università di Bab-Ezzouar, nella periferia est di Algeri, e si avviò verso la sua auto. Era stanco ma sereno: aveva trascorso l’ennesima lezione parlando agli studenti della bellezza fragile della steppa algerina e della necessità di proteggerla. Appena salito a bordo, vide avvicinarsi dei ragazzi. Forse erano studenti, pensò. Poi gli spari. Un attimo. Il sangue. La morte. Quando la sicurezza accorse, Djebaïli era già senza vita. Era il terzo dirigente universitario assassinato in un anno. L’Algeria era precipitata nella guerra civile.


Salah Djebaïli, la carriera da calciatore
Ma quella di Salah Djebaïli non era la storia di un semplice professore. Era stato anche un calciatore brillante, nato nel 1935 a Khenchela, cresciuto con il pallone tra i piedi e i sogni nella testa. Notato dall’ES Sétif, fu allenato dal francese Gévaudan che, intuendo il pericolo della guerra d’indipendenza, gli aprì la via per la Francia. A Nîmes giocò con i Crocodiles, dove fu compagno di Akesbi e Skiba, e capitano negli anni d’oro della squadra. Intanto studiava. Biologia, al Lycée Daudet, poi all’università di Montpellier. Intellettuale e patriota, sognava un’Algeria libera e colta. Quando il suo Paese ottenne l’indipendenza, Djebaïli tornò a casa.
Lasciato il calcio, si dedicò alla scienza e all’insegnamento. Studiava la desertificazione, difendeva l’ambiente, rappresentava l’Algeria nei consessi internazionali. Diventò rettore, fondò istituti, parlava di giustizia sociale e responsabilità ecologica. Era stimato, ascoltato, a tratti scomodo. Quando arrivò la democrazia, ne fu entusiasta. Ma troppo presto quella speranza si trasformò in incubo.

Nel 1992 l’esercito annullò le elezioni vinte dagli islamisti del FIS. Iniziò il “Decennio nero”. Il Groupe Islamique Armé prese di mira gli intellettuali: poeti, medici, sociologi, professori. Djebaïli fu tra i più minacciati. Non si piegò. Vietò la propaganda fondamentalista nel suo ateneo, resistette alle pressioni, continuò a insegnare. Sopravvisse a un primo attentato, perse la guardia del corpo, ma non si arrese. Finché non lo colpirono di nuovo.


Rettore universitario e i giornali al tempo del suo assassinio
Lo accusarono di essere un “comunista” e di aver sposato “un’ebrea”. Ma sua moglie Odile era una francese cattolica di Nîmes, conosciuta ai tempi della giovinezza. Una donna semplice, madre dei suoi quattro figli.

Con la sua morte, l’Algeria perdeva una mente brillante, un simbolo di integrazione, libertà e sapere. Il sogno per cui era tornato a casa era stato infranto. Ma la sua vita – tra il calcio e l’università, tra l’Europa e l’Africa, tra le steppa e le aule – resta come una lezione più forte della paura.
Mario Bocchio