Italia–Argentina, Napoli 1990: il cuore spezzato sotto la curva di Maradona
Lug 8, 2025

Nella notte più lunga dell’estate italiana, il calcio ci ricordò che non è mai solo un gioco. Era il 3 luglio 1990, Napoli brillava sotto un cielo appiccicoso e carico d’elettricità, mentre lo Stadio San Paolo si preparava a diventare teatro di una tragedia nazionale.

La semifinale del Mondiale metteva di fronte l’Italia e l’Argentina, padroni di casa contro campioni in carica, una squadra che non prendeva gol da cinque partite contro un’altra che aveva il numero 10 più adorato e detestato del pianeta: Diego Armando Maradona. L’assurdo – o forse il destino – volle che si giocasse proprio lì, nella sua città, nel suo tempio.

Caniggia supera Zenga e pareggia

Napoli si ritrovò al centro del mondo, spaccata in due: da un lato il dovere patriottico, dall’altro l’amore viscerale per l’uomo che l’aveva resa grande. Maradona, lucido e tagliente, lo disse senza mezzi termini:

“Adesso vi ricordate di Napoli? E ci chiedete di tifare Italia?”



I giorni precedenti la partita furono una tempesta. Le bandiere tricolori spuntavano sui balconi dei Quartieri Spagnoli, ma accanto a loro si vedevano striscioni ambigui, cuori divisi, silenzi ostinati. Il San Paolo fece il suo dovere e cantò l’inno, ma non con la furia cieca delle notti romane o milanesi. C’era una tensione strana, un rispetto sospeso, quasi che Napoli non volesse fare troppo rumore, per non disturbare il suo re caduto in maglia albiceleste.

Diego Maradona e Beppe Bergomi nella notte del “San Paolo”


Al 17’ Schillaci, l’eroe improbabile, la punta col ciuffo e il gol facile, infilò Goycochea e l’Italia si illuse. Ma l’illusione durò poco. Al 67’ Caniggia pareggiò, infilando Zenga in un’uscita maldestra, la prima vera incertezza di un portiere fino ad allora imbattuto. Il San Paolo tacque. Un silenzio strano, quasi rispettoso. Il rumore lo facevano gli argentini, quelli veri e quelli travestiti da napoletani.

Il rigore trasformato da Maradona


Poi vennero i supplementari, l’ansia, il caldo, la paura. Fino ai rigori. Un tiro alla volta, la roulette russa del calcio.

Baresi segnò. Serrizuela rispose. Baggio fu perfetto. Burruchaga pure. De Agostini infilò l’angolo. Olarticoechea tremò, ma segnò. Donadoni fallì, Maradona no. Poi arrivò lui, Aldo Serena. Alto, elegante, riservato. Aveva il peso del Paese sulle spalle e un pallone pesante come il Vesuvio. Calciò. Goycochea parò.

I compagni consolano Aldo Serena dopo che svanì il sogno dell’Italia in finale


Finiva così. Maradona e l’Argentina in finale, l’Italia fuori. Il San Paolo applaudì, o almeno non fischiò. Alcuni napoletani esultarono, altri restarono muti. In molti, quel giorno, sentirono di aver tradito. Altri, di aver semplicemente scelto il cuore.

L’Italia intera cercava un colpevole. Napoli, ovviamente. La città fu accusata di non aver tifato abbastanza, di aver messo Maradona davanti alla bandiera. Ma era davvero così semplice?

Gianluca Vialli contro l’Argentina a Italia’90


Maradona era più di un giocatore. Per Napoli, era rivincita sociale, era riscatto, era un dio caduto che parlava la lingua degli ultimi. E in quella notte d’estate, Napoli non scelse l’Argentina. Scelse Diego. Come avrebbe fatto una madre con il figlio bandito.



E forse fu proprio lì che finì Italia ’90. Non sul dischetto di Serena, non tra le mani di Goycochea, ma in quel conflitto emotivo che solo il calcio può generare: patria o idolo, orgoglio o amore.



Quel Mondiale ci regalò Totò Schillaci, le notti magiche, e un’Italia bella e perdente. Ma ci lasciò anche una ferita profonda, aperta sotto la Curva B del San Paolo. Dove il cuore di un popolo batté più forte della bandiera.

Mario Bocchio

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