Taranto, quando sognava con Iacovone
Lug 2, 2025

Storia romantica e amara del bomber che fece battere il cuore della città dei due mari

Di giorno, Taranto si specchiava nel Mar Piccolo come una donna antica e fiera. Le acciaierie cominciavano a fumare appena il sole si alzava, e l’odore del ferro si mescolava con quello della salsedine, come se la città non volesse mai decidere da che parte stare: mare o fabbrica, sogno o sacrificio. Ma c’erano anni, pochi e preziosi, in cui Taranto aveva scelto: stava tutta dalla parte del sogno. Erano gli anni di Erasmo Iacovone.

Lo stacco imperioso di Iacovone, calciatore di classe ma molto umile



Chi non l’ha visto giocare, a Iacovone, può solo immaginare. Chi c’era, invece, se lo porta ancora addosso come un colpo di vento improvviso, uno di quelli che alzano la polvere nei vicoli della città vecchia.

Lo stadio comunale, che poi avrebbe preso il suo nome, tremava. Iacovone era un centravanti vero, un 9 con la faccia da ragazzo serio e il piede destro che pareva comandato da un dio minore del calcio. Non era solo un bomber: era l’eroe gentile di una città ferita, ma mai rassegnata.

Con il presidentissimo del Taranto Giovanni Fico



Taranto a metà anni Settanta non era solo una squadra di provincia in Serie B: era una comunità di marinai, operai, studenti e disoccupati che la domenica saliva la scalinata del vecchio stadio come se andasse in chiesa. E in campo c’era lui, Erasmo, a fare miracoli laici.

Arrivò dal Mantova nel 1976. Nessuno s’aspettava granché. Ma bastarono poche domeniche per capire: era uno di quei calciatori che non segnano solo gol, ma lasciano segni. Volava in area come un falco, colpiva di testa come un pugile, rincorreva palloni morti come fossero promesse da mantenere. E segnava. Sempre.

Quel Taranto era allenato da Gianni Seghedoni, e giocava un calcio operaio, muscolare, ma Iacovone ci metteva la luce. In città si diceva che se ne sarebbe andato presto, forse al Torino, forse alla Lazio. La Serie A lo cercava. Ma lui sembrava non avere fretta: “Qui sto bene. Qui mi vogliono bene”, diceva con quel sorriso timido da figlio del Sud, anche se era nato a Capracotta, tra le montagne molisane.

Il portiere Petrovic, Dradi e Iacovone nel Taranto



Poi arrivò il 6 febbraio del 1978. La sua Citroën Dyane fu violentemente speronata da un’Alfa 2000 GT con a bordo Marcello Friuli, procedeva a fari spenti perché inseguito dalla polizia perché aveva appena rubato proprio la vettura.

Nel violento impatto Iacovone fu sbalzato fuori dal parabrezza e morì, non aveva ancora 26 anni, era sposato da meno di un anno e la moglie era incinta di sette mesi.

Iacovone nelle vie di Taranto



Taranto si fermò. Letteralmente. Le fabbriche rallentarono, le scuole chiusero prima, i pescatori non uscirono in mare. Si riempì la cattedrale, si svuotò il cuore della città. E da allora, il suo nome non è mai sparito. Lo stadio è diventato lo “Iacovone”, ma il vero monumento è quello che ogni domenica si ricompone nelle chiacchiere dei vecchi al bar, nei cori degli ultras, negli occhi di chi racconta per la centesima volta “io c’ero, l’ho visto segnare”.



Taranto oggi ha conosciuto la polvere della Serie D, le vertigini del ritorno e le amarezze dei nuovi fallimenti. Ma quando sogna, sogna ancora con il suo numero 9. Lo vedono tutti, in fondo al campo, mentre saltella per scaldarsi prima delle partite con quei suoi baffoni, oppure mentre si gira su sé stesso e lascia partire un destro che taglia l’aria. È solo un ricordo. Ma in questa città, i ricordi sanno essere più veri della realtà.

Mario Bocchio

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